Chiedere per sapere e chiedere per ottenere: le forme ecclesiali nella società della dignità. A proposito delle risposte ai 6 dubia di Mons. Negri.

Nella giornata di ieri è stato reso noto un responso del Dicastero per la Dottrina della fede a una lettera di S.E. Mons. José Negri, Vescovo di Santo Amaro in Brasile, contenente alcune domande riguardo alla possibile partecipazione ai sacramenti del battesimo e del matrimonio di persone transessuali e di persone omoaffettive. Abbiamo chiesto un commento ad Andrea Grillo, docente di teologia dei sacramenti presso il Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma.

Quando si pone una domanda, lo abbiamo imparato studiando il latino, si possono compiere due azioni diverse: si può chiedere per sapere e si può chiedere per ottenere. Un “dubium” può essere sollevato per due motivi: o per sapere qualcosa che non è chiaro o per ottenere qualcosa che non è ancora acquisito. Nel caso che qui si presenta, mi pare molto chiaro che le domande poste alla Congregazione da parte del Vescovo Negri, sollevate da una diocesi (Santo Amaro) interna alla metropoli di San Paolo del Brasile, fossero orientate ad ottenere un chiarimento su decisioni pastorali ragionevoli, ma che l’inerzia della società dell’onore tende a giudicare sempre “da fuori” e quasi “in contumacia”.

Ecco le 6 domande:

1. Un transessuale può essere battezzato?
2. Un transessuale può essere padrino o madrina di battesimo?
3. Un transessuale può essere testimone di un matrimonio?
4. Due persone omoaffettive possono figurare come genitori di un bambino, che deve essere battezzato, e che fu adottato o ottenuto con altri metodi come l’utero in affitto?
5. Una persona omoaffettiva e che convive può essere padrino di un battezzato?
6. Una persona omoaffettiva e che convive può essere testimone di un matrimonio?

Come è evidente, si tratta di domande che riguardano la incidenza delle “forme di identità sessuale e di esercizio della sessualità” (transessuale e/o omosessuale) sulla possibilità di entrare (a diverso titolo) nella prassi sacramentale della Chiesa. Le azioni rituali considerate sono il battesimo (su cui vertono 4 domande) e il matrimonio (per 2 domande). La formulazione del dubbio è fatta nelle forme classiche ed anche la risposta segue lo stile classico, formale nel tenore e amministrativo nello stile. Tuttavia, dalle risposte, è facile notare come le argomentazioni, pur seguendo un procedimento argomentativo classico, aprono su una lettura aggiornata della tradizione. Provo a identificare i punti più importanti di questa novità:

a) I sacramenti non sono cose, ma persone. Non sono beni da amministrare, ma soggetti da accompagnare.

Una società dell’onore tende a subordinare la “cosa sacra” al consenso sociale. Così pensa che l’onore di un atto sacro, come il battesimo o il matrimonio, non possa tollerare la trasgressione delle forme acquisite dal passato. Per questo innalza il criterio dello scandalo a criterio sommo nella amministrazione della prassi sacramentale. Così è stato possibile, fino a che questo criterio è stato dominante, che alla coppia omosessuale o al transessuale, fosse vietata, col consenso della Chiesa, la attribuzione di appartamenti, perché la presenza di “irregolari” avrebbe penalizzato i padroni delle case vicine, in quanto “famiglie regolari e normali” che così avrebbero perso una parte del loro patrimonio. Il criterio dello scandalo ha le sue ragioni, ma non ha tutte le ragioni. Questa nuova evidenza, che a partire da Amoris laetitia ha iniziato a valere ufficialmente nelle considerazioni pastorali della Chiesa cattolica, implica un discernimento continuo.

b) Alcune domande, come è evidente, sono risolte in modo netto: essere “testimone di nozze” è in funzione della pubblicità dell’atto come “fatto sociale”, non ha nulla di specificamente ecclesiale. 

A partire dal Decreto Tametsi e poi con l’irrigidimento ottocentesco che giunge al suo culmine nel Codice del 1917, abbiamo potuto pensare che l’integrale esperienza matrimoniale potesse essere “di competenza ecclesiale”. E che la Chiesa potesse anche giudicare sulla “dignità morale” dei testimoni. Questo appare il frutto di una deformazione clericale della dimensione naturale e secolare del matrimonio, che in Cristo è “elevato” a sacramento. Questa elevazione presuppone un “atto pubblico” in cui la testimonianza dei terzi è condizionata solo dal fatto che siano capaci di intendere e di volere. Il fatto che sia stata posta la domanda sui “testimoni” dice con molta chiarezza a quale punto di “distorsione” sia potuto arrivare il sogno di un totale controllo ecclesiale esercitato sulla unione e sulla generazione tra battezzati.

c) Un terzo elemento significativo, nel valutare le risposte della Congregazione, consiste nel notare come, nel ridimensionamento del criterio dello scandalo (che non scompare, ma non detta legge), si affaccia una diversa comprensione della legge, anche della legge canonica.

Uno dei sogni, che la chiesa ottocentesca ha prima maturato e poi realizzato nel Codice del 1917, era di dotarsi di “leggi universali e astratte” con cui l’intera pastorale sarebbe stata orientata al bene: bene ecclesiale, ma, ultimamente, “bonum animarum”. Il passaggio dalla “società dell’onore” alla “società della dignità” ha profondamente modificato la concezione della legge. Nella società dell’onore, la legge è una pedagogia di orientamento al bene, controllata dal centro. La tutela delle “differenze” e delle “preferenze” va nella direzione della “salvezza delle anime”. Così è possibile concepire che tutte le differenze naturali e sociali (tra uomo e donna, tra liberi e schiavi, tra giudei e greci, ma anche tra figli naturali e figli legittimi, tra eterosessuali e omosessuali) non siano superate in Cristo, ma siano “custodite nella Chiesa”. Solo custodendo le differenze si tiene l’orientamento al bene comune. Ma la società della dignità non funziona così. La giustificazione della legge non è soltanto più nella “pedagogia dell’ordinamento”, ma nel “riconoscimento del soggetto”. Ciò che superiamo, con questo passaggio complesso, è l’idea che la Chiesa sia la amministratrice di “cose” che può concedere solo “a certe condizioni”. La Chiesa incontra “persone” che accompagna nel discepolato di Cristo, lungo percorsi, itinerari, cammini. E deve dotarsi per questo di uno strumento di discernimento diverso dalla sola “legge oggettiva” (come dice benissimo AL 303, parlando, per il passato, di un agire “meschino” che “pusilli animi est”).

d) Come è evidente, le domande sollevate come dubia, come le risposte della Congregazione, scontano alcuni “deficit” che sono il portato di una lettura “doganale” e “amministrativa” della Chiesa. 

Tutto rischia di essere ridotto al “sì” o al “no” sulla possibilità di partecipare ad un “atto formale”: essere soggetto del battesimo proprio, essere padrino o madrina del battesimo altrui, essere genitori di un figlio non generato, ma adottato, essere testimoni di nozze. Tutto questo può cadere nella trappola (antica e nuova) di essere ridotto ai due estremi: o “concessione ecclesiale” o “diritto soggettivo”. Questi sono gli stili opposti, proprio della “società dell’onore” e della “società della dignità”: la prima conosce solo concessioni, la seconda solo diritti. Nella trama della coscienza più autentica, la Chiesa sa che questi eventi non sono mai semplicemente “atti amministrativi”, sui quali sindacare diritti, interessi legittimi o doveri. Il cammino che porta al battesimo conta tanto quanto l’atto formale e sacramentale che lo conclude; la relazione di conoscenza e frequentazione tanto quanto la funzione formale del padrinato/madrinato. Queste evidenze ecclesiali, che restano sotto traccia anche nello scambio tra Vescovo e Congregazione, come era inevitabile, devono trovare una risposta ulteriore, rispetto a quella data ai 6 dubia. Una “conversione pastorale” che recuperi i sacramenti come persone, e non li tratti più come cose, considera queste risposte ai dubia come “utili paracarri” al bordo della strada, e si occupa invece della strada, su cui camminano le vite delle persone, con la loro grazia e le loro disgrazie.

e) Siccome nessuno ha mai posto il “dubium” se possa essere battezzato un capo-mafia o uno spacciatore di droga, ma si pone la questone se il transessuale possa essere battezzato, è evidente che si comprende la differenza tra una condizione che “può essere oggetto di conversione” (peccato, in senso stretto) e quella che “non può esserlo”.

Essere transessuale o omosessuale è una condizione, non anzitutto un peccato. Qui sta il punto culturalmente ed ecclesialmente decisivo. Abbiamo considerato da alcuni secoli il “peccato sessuale”, ridotto ad “atto impuro”, come il peggiore dei mali. E abbiamo colpevolizzato le esistenze anzitutto su questo piano. Così abbiamo potuto costruire un sistema nel quale l’esercizio della sessualità diventa una sorta di “forca caudina”, inaggirabile per il giudizio sulla abilitazione del soggetto a stare “onorevolmente” nella Chiesa. La dignità di ogni battezzato implica una scelta di vita che non può essere controllata soltanto sul piano delle relazioni sessuali. La superbia, l’invidia e l’ira sono le piaghe della umanità, di tutti, anzitutto dei “regolari”. E sappiamo bene che il “lavoro ecclesiale” non avrebbe senso se ponessimo, all’inizio di una esperienza ecclesiale, una serie di dubia così concepiti:

– un superbo può essere battezzato?
– un invidioso può fare il padrino?
– un iracondo può essere testimone di nozze?

Il vero scandalo, dal quale la società della dignità può aiutarci a guarire, è che ci facciamo tutti i problemi possibili per le forme di vita in cui l’esercizio della sessualità non è quello tradizionale, ma non abbiamo alcun problema a benedire e regolarizzare la superbia, l’invidia e l’ira e a sopportarne quasi con disinvoltura la presenza ostinata e dirompente. E’ scandaloso il fatto che vediamo come peccati e come disordini le identità complesse sul piano sessuale e vediamo come naturali e normali le identità disumane, le differenze imposte e le preferenze sfacciate. Le risposte di buon senso offerte dalla Congregazione alle 6 domande del Vescovo Negri aiutano a ridimensionare un difetto di sguardo della tradizione cattolica moderna: quello di ingigantire a dismisura le cose piccole e di rimpicciolire senza limiti le cose grandi. Una messa a fuoco della vista passa anche da risposte ragionevoli e domande sanamente provocatorie.

Andrea Grillo, nato a Savona nel 1961, insegna dal 1994 Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione a Roma, presso il Pontificio Ateneo “S. Anselmo” e Liturgia a Padova, presso l’Abbazia di “Santa Giustina”. È padre di Margherita e di Giovanni Battista. È autore del blog Come se non. Tra le sue pubblicazioni sul tema ricordiamo Può una madre non benedire i propri figli? Unioni omoaffettive e fede cattolica (con C. Scordato), Cittadella Editrice, Assisi 2021; Cattolicesimo e (omo)sessualità. Sapienza teologica e benedizione rituale, Morcelliana Scholé, Brescia 2022.

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