Sono stata sollecitata più volte a scrivere sulle donne nel Sinodo dei vescovi che ha appena concluso la sua XVI assemblea ordinaria. Fino ad ora non me la sono sentita, perché percepivo il rischio di dare una lettura che sminuisse i tentativi fatti (della serie «Anche questa volta siamo rimasti ai blocchi di partenza»… senza però considerare seriamente e onestamente quali erano le diverse situazioni di partenza); oppure che esagerasse i risultati raggiunti (della serie «Finalmente riapriamo la questione del diaconato», senza dirci sinceramente che si tratta dell’ennesima riflessione teologica sul diaconato alle donne anche se già sappiamo da tempo non ci sarebbe alcun problema a conferirlo).
E così, mentre cercavo di glissare le richieste e i sensi di colpa (perché un po’ mi sembrava doveroso scrivere anch’io visto, il lavoro che faccio), sono andata al cinema a vedere il bellissimo e già più volte celebrato film di Paola Cortellesi C’è ancora domani. Ci sono andata due volte – con mio marito la prima, con due dei miei figli (maschio di 19 e femmina di 16) la seconda –, e questo mi ha offerto una prospettiva possibile per poter parlare delle posizioni prese dal Sinodo sulle donne.
Il film mette sulla scena una storia assolutamente realistica: una famiglia nel primo dopoguerra affronta la povertà e l’ignoranza, ma soprattutto le discriminazioni nei confronti delle donne, che possono essere umiliate, picchiate, controllate e sfruttate in ogni modo possibile. Non si respira il dramma della violenza, ma invece la leggerezza data dalla volontà di andare avanti, di fare il bene, di far crescere i figli e di dare loro un domani migliore. Delia, la protagonista, per quanto vessata non è una vittima passiva, ma una resistente, una resiliente, un’eroina del quotidiano. Tutto il film si incentra, anche se non lo si scopre fino all’ultimo, sul diritto di voto alle donne. Gli eventi si svolgono infatti nei giorni immediatamente precedenti alle prime elezioni politiche italiane in cui hanno potuto votare anche le donne, e il dramma personale e familiare di Delia non si scioglie fuggendo, rifacendosi una vita, cercando un uomo migliore (che pure c’era e le aveva offerto una via di fuga); il dramma personale di Delia si scioglie invece nella soluzione politica di andare a votare perché la società si dia altre regole, perché non ci sia più bisogno un giorno di cercare fughe personali né soluzioni improbabili o fortunate dentro un sistema iniquo. Delia sceglie di cambiare l’esistenza di tutte, non la propria, esercitando l’unico strumento che il sistema sociale le offriva esponendo se stesso al cambiamento, perché il voto di lei – e di tutte le altre – ha il potere di costruire un altro sistema.
Delia non è la sola. Ci sono altre donne, nel film, che vengono tutte presentate relativamente al voto: la (sfumata) consuocera arricchita, la negoziante, la signora benestante. Ciascuna di loro viene zittita dal proprio marito – è quindi una condizione trasversale a tutte le classi – e ciascuna di loro si trova alle urne utilizzando l’unica crepa del sistema che le umilia, una crepa che diventerà una voragine fino a che l’intero sistema andrà ricostruito. Mia figlia ha commentato alla fine del film (il giorno dopo, in realtà: nell’immediato era arrabbiata all’idea che Delia dovesse continuare la propria vita in quella casa – come non darle ragione?): il diritto di voto viene rappresentato come un diritto di parola, finalmente le donne zittite da tutti hanno potuto dire la loro. Finalmente ciò che loro pensavano aveva la capacità di tradursi in potere politico.
Ecco, questo è quanto è accaduto al Sinodo dei vescovi. Le donne (troppo poche, d’accordo) erano sedute insieme a tutti gli altri, alla pari, con diritto di parola e di voto. Inutile anche dar seguito a mormorazioni sui criteri con i quali siano state scelte, anche perché spesso donne impegnate nella Chiesa che si presentano con una fisionomia rassicurante non mancano certo di consapevolezza, argomenti e forza. Ciò che conta davvero è che le donne c’erano e potevano parlare, dovevano essere ascoltate e rispettate; inoltre, se si voleva approvare qualcosa, occorreva anche il loro voto: bisognava convincerle, dunque. I risultati non sono stati eclatanti, non abbiamo una rivoluzione (forse non era nemmeno auspicabile, e comunque il Sinodo non è concluso); ma abbiamo una nuova modalità di radunarsi e di decidere, e in questa nuova modalità anche le donne hanno il diritto di esserci.
Le prime elezioni italiane in cui le donne avevano diritto di voto sono state quasi ottanta anni fa. Questo dice la misura del ritardo ecclesiale, ma dice anche che il sistema ecclesiale è – come la tradizione insegna – sempre in riforma, anche quando si tratta di donne. A volte si soffre e si combatte per tanto tempo senza vedere nulla, finché improvvisamente si apre una crepa e nessuno può valutare più la portata del cambiamento. Delia, la straordinaria protagonista di C’è ancora domani, insegna a cogliere l’opportunità di trasformare la propria sofferenza in decisione politica, perché cambi tutto per tutte e tutti e non solo per sé. Forse è un’applicazione della parabola delle dieci vergini che abbiamo ascoltato recentemente nella liturgia domenicale: si può vivere la vita, anche quando è molto faticosa, accumulando saggezza (tenendo con sé l’olio), in modo che quando arriverà il momento opportuno (arriva lo Sposo!) sapremo come agire per non perdere l’occasione di entrare nella vita portando con noi quante più persone possibili. Essere pronte, questo è quanto consegna con grande intelligenza il film di Cortellesi, e forse è ciò che le donne cattoliche oggi devono riscoprire.
Fonte: https://www.ilregno.it/regno-delle-donne/blog/quel-voto-che-cambia-il-domani-simona-segoloni
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