Quale equilibrio tra fine procreativo e fine unitivo?

a cura di Martin M. Lintner

Sudtirolese, nato nel 1972, dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Facoltà di teologia cattolica di Innsbruck e di Vienna, oltre che a Roma. Già presidente della Associazione europea di teologia cattolica (2013-2015), oggi è professore ordinario di teologia morale e teologia spirituale allo Studio teologico accademico di Bressanone. In italiano ha pubblicato, fra l’altro: La riscoperta dell’eros (EDB, Bologna 2015); Cinquant’anni di Humanæ vitæ (Queriniana, Brescia 2018); Etica animale. Una prospettiva cristiana (Queriniana, Brescia 2020).

Nel mio ministero pastorale di sacerdote religioso, ho avuto il privilegio di accompagnare molte coppie nel loro cammino di preparazione al matrimonio. Molte di loro decidono di sposarsi dopo un prolungato periodo di convivenza. Quando parliamo dei motivi che li spingono a sposarsi, il motivo centrale è quello dell’amore. Certo, hanno anche il desiderio di avere dei figli, ma l’amore viene prima di tutto: “Vogliamo sposarci perché ci amiamo, e poiché ci amiamo vogliamo anche avere dei figli insieme.”

L’amore nel matrimonio: un ideale moderno

Che l’amore sia decisivo come motivo per il matrimonio è abbastanza evidente per noi oggi. Ma uno sguardo alla storia mostra che l’amore come motivo centrale del matrimonio è un ideale che si è affermato solo in epoca moderna. Fino ad allora, il matrimonio era soprattutto una comunione di scopo, sia dal punto di vista economico che da quello della procreazione e dell’educazione dei figli. L’atto sessuale anche all’interno del matrimonio che non mirava alla procreazione o che escludeva la possibilità di procreare era condannato come forma di abuso del matrimonio e come strumentalizzazione del partner al fine del proprio godimento sessuale.

Per la Chiesa, fino al Concilio Vaticano II, la procreazione era il primo scopo del matrimonio e la legittimazione dei due coniugi ad avere rapporti sessuali. In un documento preparatorio del Concilio si leggeva ancora: «È un errore credere che il matrimonio abbia a che fare con l’amore». Era prima di tutto una questione contrattuale e serviva per procreare e allevare la prole. Tuttavia, nel testo sul matrimonio della Gaudium et spes 48-52, i Padri conciliari hanno operato due cambiamenti di paradigma molto decisivi: In primo luogo, non hanno più caratterizzato il matrimonio come un contratto. Parlano invece dell’intima comunione di vita e d’amore, cioè del matrimonio come alleanza di amore e fedeltà che dura tutta la vita (cf. n. 48). In secondo luogo, hanno stabilito chiaramente che il matrimonio non è istituito solo per la procreazione dei figli, ma «che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità» (n. 50).

Christof Breitsameter e Stephan Goertz, due teologi morali tedeschi, sostengono in un libro pubblicato recentemente[1] la seguente tesi: nella tradizione l’amore è stato inteso come un derivato del matrimonio, mentre oggi – al contrario – il matrimonio è considerato un derivato del’amore: «Dovrebbe esserci piuttosto un amore senza matrimonio che un matrimonio senza amore». Gli autori sostengono inoltre che – a differenza dell’amore dell’amicizia, che si riferisce a qualità specifiche dell’altra persona – solo l’amore sensuale-erotico mira all’altra persona nel suo complesso, e quindi all’altra persona per se stessa. In questo modo, i due autori arrivano a considerare il desiderio di prole come una forma di strumentalizzazione del partner. Per sostenere la tesi dell’unità del desiderio sensuale e dell’amore, ribaltano, per così dire, l’argomentazione magisteriale tradizionale: Non è l’esclusione della prole a significare la strumentalizzazione dell’altra persona, ma il desiderio di avere un figlio con lui o lei.

Prima l’amore?

Assistiamo quindi a un’evoluzione: Nella tradizione lo scopo primario era la procreazione, oggi è l’amore. Per quanto riguarda la tesi di Breisameter e Goertz, tuttavia, possiamo chiederci criticamente se il pendolo non oscilli da una parte all’altra. Possiamo davvero dire che il desiderio di figli è una sorta di strumentalizzazione del partner che sminuisce l’amore senza scopo?

La professoressa Gaia De Vecchi, nel suo contributo Mostrare la gioia, ha giustamente sottolineato che l’accompagnamento pastorale delle coppie oggi deve riflettere su un nuovo equilibrio tra il fine procreativo e il fine unitivo. L’autrice usa l’espressione «nuovo equilibrio», che significa che bisogna evitare posizioni estreme, in cui il pendolo oscilla da una parte o dall’altra.

Un nuovo equilibrio

A mio avviso, è essenziale che anche come Chiesa e nella pastorale teniamo conto del fatto che la sessualità umana ha molte dimensioni di significato. È un’espressione dell’identità personale e quindi svolge un ruolo importante nella ricerca dell’identità e nello sviluppo personale. La sessualità soddisfa bisogni importanti, come il desiderio di essere accettati e amati, ma anche di dare tenerezza, intimità e amore. La sessualità dà gioia di vivere ed è fonte di piacere. Ed è anche feconda. La sfida è quella di non separare questi diversi significati, ma allo stesso tempo di riconoscere che essi svolgono ruoli diversi nelle diverse fasi della vita. Per una persona pubescente o una coppia appena innamorata, la scoperta della persona amata, anche attraverso il linguaggio del corpo, è probabilmente più in primo piano che il desiderio di un figlio insieme. Oggi molte coppie tendono a rimandare il desiderio di figli e a coordinarlo con la carriera professionale della donna. In età avanzata invece, il desiderio di vicinanza e tenerezza gioca un ruolo maggiore.

È importante che il potere della sessualità di creare e rinforzare la comunione tra due persone sia riconosciuto e apprezzato. Il Concilio Vaticano II dice già che nelle unioni in cui l’intimità è trascurata, il bene della fedeltà può essere messo in pericolo (cf. Gaudium et spes 51). Per questo motivo Francesco scrive nell’Amoris laetitia (2016) che, nel caso dei divorziati risposati, non si deve necessariamente esigere l’astinenza sessuale se questo può significare che la coesione della coppia può essere messa in pericolo (cf. n. 298, nota 329). Naturalmente non si deve escludere nemmeno la fecondità, perché è una dimensione significativa della sessualità. Ma la questione cruciale è se ogni atto sessuale debba essere aperto alla fertilità. Di fatto, in termini puramente biologici non lo è. Non sarebbe quindi sufficiente dire che la coppia in quanto tale non deve escludere il desiderio di figli, ma che non ogni singolo atto sessuale deve avere questa apertura? Da quando Paolo VI ha ribadito l’unità indissolubile di unione amorosa e procreazione nell’Humanae vitae (1968), la questione è stata oggetto di un intenso dibattito, sia a livello morale-teologico che pastorale. Papa Francesco non ha rivisto l’insegnamento di Paolo VI in Amoris laetitia, ma ha posto nuovi accenti riconoscendo il potere della sessualità di rafforzare e consolidare l’unione d’amore di due partner (cf. n. 36) Egli parla anche di una fertilità allargata che non può essere ridotta alla procreazione (vf. n. 178 ss).

È quindi importante accompagnare le coppie in modo che la loro unione si rafforzi e che la fecondità del loro amore possa esprimersi a diversi livelli.

[1] Cf. C. Breitsameter, S. Goertz, Vom Vorrang der Liebe. Zeitenwende für die katholische Sexualmoral, Freiburg i. Br. et al., Herder 2020.

Comments (1)

  • Federico Cosimo Calo'says:

    Novembre 6, 2023 at 8:39 am

    Collegare il fine CD “unitivo” con il termine “amore” e con la realizzazione/espressione dell’identità sessuale pare portare il discorso Cattolico sulle funzioni e finalità attribuite al matrimonio sull’osservazione della emotività e personalità umana e su un “nuovo” fine di realizzazione dei vari aspetti della persona

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