a cura di Andrea Pizzichini
Ha conseguito la licenza e il dottorato in Teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana in Roma con una tesi dal titolo: “Le radici biologiche del senso morale. Coscienza e giudizio morale alla luce dei contributi delle neuroscienze”. Attualmente è Professore assistente di Teologia morale sistematica presso l’Accademia Alfonsiana (Roma).
Forse ciò che meriterebbe la riflessione più approfondita sulla questione è la parte della domanda che probabilmente è passata un po’ inosservata, in quanto premessa doverosa e a suo modo scontata: l’ottica interdisciplinare a partire dalla quale si pongono le domande. In effetti, è lì, dal punto di partenza, che si gioca tutta la questione. Pur non lasciandoci impressionare da proclami mediatici che hanno più a che fare con il marketing editoriale che con la scienza, è innegabile che il dialogo con le neuroscienze imponga alla teologia morale un suo radicale ripensamento (nel senso letterale di ripensare le sue radici).
Questione di metodo
Ricordiamoci che la prima e fondamentale regola per ottenere risposte sensate e significative è quella di porre le domande nel modo corretto, e questo è proprio ciò che la scienza ci insegna: l’esperimento non è altro che una domanda, precisa e circostanziata, che viene posta alla natura, della quale pertanto ci si pone in ascolto. In merito al dialogo tra teologia e neuroscienze, occorre innanzitutto chiedersi: che tipo di domande pongono le neuroscienze alla natura (nel nostro caso la natura umana)? Infatti, in quel “preciso e circostanziato” che citavo poc’anzi riguardo all’esperimento è racchiuso il peculiare punto di vista di ciascuna disciplina, il quale ci permette di capire cosa questa ci può dire e cosa non ci può dire. Il passo successivo è, quindi, chiedersi: come posso fare tesoro di quello che una certa disciplina scientifica mi dice? Ciò impone il compito intellettualmente non banale di tradurre un determinato problema (per esempio quello della coscienza dal punto di vista delle neuroscienze) nelle proprie categorie teologico-morali, in modo da poter così «vagliare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (cfr. 1Ts 5,21).
Ad esempio, come è stato giustamente rilevato nel quesito, i concetti di coscienza adottati nelle neuroscienze e nella teologia morale sono differenti, assimilabili alla distinzione tra coscienza psicologica e coscienza morale (teologica). Un modo di inquadrare il problema secondo le categorie della teologia potrebbe essere quello, prendendo in prestito la tradizionale dottrina dei trascendentali, di constatare come la coscienza psicologica sia riconducibile all’ambito del verum (cioè di consapevolezza e conoscenza dell’ambiente che mi circonda), mentre la coscienza morale all’ambito del bonum. Perciò, un possibile “ponte” tra le due può essere il dato, che ci viene anche dalle neuroscienze, che la consapevolezza (coscienza psicologica) porta in sé anche la percezione di un giudizio di valore su una determinata situazione (ciò che è buono/utile o cattivo/dannoso per me). Ciò significa che c’è traccia anche a livello empirico di una dimensione assiologica, che però va valorizzata allargando poi lo sguardo: le prove sperimentali da cui si parte per simili conclusioni hanno infatti per oggetto spesso animali, oppure comportamenti umani in circostanze molto particolari (quelle dell’esperimento, necessarie per porre la domanda corretta e ottenere la risposta sensata). È qui che può intervenire il lavoro prettamente ermeneutico della teologia, la quale può inserire questo dato in un pensiero più ampio e globale della coscienza ma che, come abbiamo visto, riguarda fin nel profondo la nostra carne.
Il contributo delle neuroscienze …
Possiamo dunque concludere che le neuroscienze ci spingono a riconsiderare in modo più profondo la nostra comprensione dell’uomo come «spirito incarnato», aiutandoci a scoprire una concretezza e complessità insospettata nell’attributo “incarnato”. In merito a questo, si può fare anche un altro esempio, sul fatto che la ricerca scientifica ci mostra una struttura complessa e gerarchicamente ordinata del fenomeno della coscienza, per così dire “mascherata” dal nostro sentimento di unitarietà, e che esperienze come quella dello stato vegetativo ci permettono di scorgere e indagare. Insomma, la coscienza è parte di quella vita personale che siamo ciascuno di noi, la quale vita ha anche una dimensione biologica studiabile dalle neuroscienze, ma che si spinge fino alle profondità e alle altezze del mistero divino.
… e quello della teologia
Da questo vediamo quale contributo la teologia può a sua volta dare alle neuroscienze e più in generale alla ricerca empirica sull’uomo. Essa può aiutare a evitare derive oggettivistiche di certe interpretazioni di risultati scientifici che dimenticano troppo velocemente che anche la scienza è prima di tutto un’attività cosciente e libera, per cui certi pretesi risultati che negherebbero l’effettiva esistenza di queste due facoltà sono probabilmente esempi di cattive risposte dovute a domande poste non nel modo giusto. Inoltre, come già accennato, la teologia ricorda che la “carne” studiata dalle neuroscienze non è mera passività manipolabile a piacere, ma parte di quel “mistero” che è l’uomo, che in Cristo raggiunge le vette della realtà di Dio.
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