La responsabile arte del consumo

a cura di Gianpaolo Lacerenza

 

Frate minore cappuccino della Provincia di Puglia, della quale è ministro provinciale, ha conseguito la licenza e il dottorato in teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana di Roma. È docente di teologia morale sociale presso l’Istituto Teologico Regina Apuliae e l’Istituto teologico Santa Fara della Facoltà Teologica Pugliese. Con Giorgio Nacci e Roberto Massaro cura il blog di promundivita.it.

 

Il consumismo «nuovo vizio»?

In un saggio dal titolo I vizi capitali e i nuovi vizi (2003) del filosofo Umberto Galimberti, il consumismo è definito come un nuovo vizio perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto ed essenzialmente perché «crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e benessere» (p.67). Mi sembra interessante come Galimberti indichi un’antropologia del consumo, dove la persona consegna la propria identità agli oggetti che possiede, strutturati in un ciclo di produzione-consumo in cui l’inconsistenza e l’usura delle cose esprimono proprio il loro fine. In questo tipo di società dove nulla sembra essere durevole, la libertà diventa evanescente, si diffonde un senso diffuso di irrealtà e le identità delle persone possono essere «indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti» (p.73). Credo sia molto forte la considerazione di Galimberti quando sostiene che il consumismo è un nuovo vizio in quanto i vizi tradizionali sono una deviazione della personalità, i nuovi vizi invece, come il consumismo, il conformismo, la sociopatia, segnalano tendenze collettive in cui avviene il dissolvimento della personalità, per altro non avvertito direttamente.

Un po’ di storia sulla questione del consumo

Per Tommaso d’Acquino il commercio rivelava in sé un margine di sospetto, in quanto associato alla cupidigia del guadagno e dunque intrinsecamente avrebbe una finalità disonesta e non necessaria. Tuttavia il guadagno in sé non è condannato, in quanto può essere orientato a un fine onesto come il sostentamento della famiglia, il soccorso ai poveri o per l’utilità pubblica (cf. S.Th., IIa-IIae, q.77, a.4, corp.). Pertanto Tommaso riconosce che il valore delle cose scambiate nel negotium e il loro giusto prezzo hanno una radice in una sorta di fondamento antropologico che è l’amicizia civile e la mutua assistenza tra tutte le parti coinvolte nel reciproco scambio. Pio XII affermava già nel 1941 che «la proprietà» e il «libero e reciproco commercio dei beni con scambi e donazioni» sono un diritto fondamentale delle persone (Radiomessaggio del 1941). Il consumatore, dunque, è consapevole che dal diritto al libero scambio ne consegue una doverosa responsabilità, ovvero calibrare la funzione personale e sociale tipica di ogni acquisto-scambio ed esercitare una scelta sui rischi di tale dinamica, come ad esempio la possibile strumentalizzazione del potere di acquisto ai fini di molteplici finalità alcune delle quali non regolamentate e non comunicate adeguamenti.

Una cultura in cui più si “ha” e più si “è”?

Giovanni Paolo II vide proprio all’orizzonte del velocissimo progresso economico un’altrettanta veloce perdita dello sviluppo integrale della persona e delle sue relazioni. Infatti, nell’enciclica Sollecitudo rei socialis (1987) critica la pura accumulazione di beni e servizi, in quanto se non è retta da un «intendimento morale e da un orientamento verso il vero bene del genere umano, si ritorce facilmente contro di lui per opprimerlo» (n. 28). Egli denuncia profeticamente la cosiddetta «civiltà dei “consumi”, o consumismo, che comporta tanti “scarti” e “rifiuti”» e la continua «sottomissione al puro consumo», che provoca non solo una forma di «materialismo crasso» ma anche una «radicale insoddisfazione» (n. 28).

Nel precedente insegnamento sociale della Chiesa, già Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio (1967)   scriveva che «la ricerca esclusiva dell’avere diventa un ostacolo alla crescita dell’essere» e tale «antinomia» finisce per radicalizzarsi a tal punto da ritenere che il solo possedere perfezioni di per sé il soggetto umano, quasi l’assunto che più si ha e si compra e più si è (cf. nn. 18-20)! Lo espresse lo stesso Concilio Vaticano II con parole lapidarie l’assunto contrario ovvero che «l’uomo vale più per quello che “è” che per quello che “ha”» (Gaudium et spes, n. 35).

Una grave responsabilità morale di noi cittadini, dunque, non consiste nell’avere/acquistare/consumare in sé, riprendendo la posizione di Giovanni Paolo II, ma «nel possedere in modo irrispettoso della qualità e della ordinata gerarchia dei beni che si hanno. Qualità e gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro disponibilità all’essere dell’uomo e alla sua vera vocazione» (Sollecitudo rei socialis n. 28).

Ogni nostra decisione economica ha conseguenze di carattere etico

Nella Caritas in veritate (2009), enciclica sociale di Benedetto XVI, è chiara la preoccupazione che ci sia una mentalità diffusa per cui siano esenti da implicazioni morali il mercato e l’attività economica, intesa come reperimento di risorse, finanziamenti, produzione, consumo e tutte le altre fasi. È invece importante affermare che ogni decisione economica e dunque anche una decisione di acquisto e consumo non sono neutre, hanno conseguenze di carattere morale. Qui mi collego al discorso di Marino Colamonico, il quale ha descritto bene il divario che si è creato tra homo economicus e homo civicus.

Una qualsiasi decisione economica è questione di giustizia «per questo i canoni della giustizia – scrive Benedetto XVI – devono essere rispettati sin dall’inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente» (n. 37). Il pensiero sociale della Chiesa ha sempre ritenuto che non basta una giustizia commutativa al fine di regolare i rapporti tra il dare e il ricevere di soggetti che devono soddisfare i loro bisogni nello scambio di beni, ma anche l’importanza di una giustizia distributiva e sociale, «non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trame di relazioni in cui si realizza» (n. 35).  

Il tessuto di relazioni in cui si attua una certa giustizia dello scambio è configurato anche culturalmente, afferma Benedetto XVI, a tal punto che una certa configurazione specifica e orienta lo scambio di beni. Per questo motivo «non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale» (n. 36). All’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o “dopo” di essa si possono allora costruire «rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità» (n. 36). Non è vero, dunque, che i poveri debbano essere un “residuo di scarto” per poter funzionare al meglio l’economia di mercato. Il consumo responsabile è influenzato certo da fattori esterni, appunto chiamate configurazioni culturali, ma è la persona a determinare un di più di responsabilità dove la relazione tra chi vende e chi acquista, esige un avvicinamento di philia, direbbe il famoso abate napoletano Antonio Genovesi.La nostra società dei consumi deve ricentrare la sua domanda etica non solo sul vantaggio per sé, necessario ma moralmente non sufficiente, ma anche sulla mutua reciprocità e fiducia che una relazione di mercato oggi esige. Non basta dirsi: ho acquistato bene? Ho risparmiato? È un prodotto vantaggioso per me?, ma aggiungere: chi trae vantaggio dal prodotto che ho acquistato? Quale amicizia sociale, ovvero reciprocità equa, si è potuta stabilire tra produttore e consumatore?  

La responsabile arte del consumo per non scartare nessuno

Siamo chiamati come cittadini e come cittadini cristiani a non trascurare i meccanismi dell’economia attuale che «promuovono un’esasperazione del consumo», la cui sfrenata ossessione, «unita all’inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale», come ha avuto modo di affermare papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013, cf. n. 60). Anche nell’enciclica sociale Laudato si’ (2015), Francesco scrive che «l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca» (n. 204). La responsabilità personale dinanzi all’opportunità etica di certi consumi dovrebbe sempre più intrecciarsi con un comunitario e globale cambiamento di stili di vita.

A tale riguardo la Laudato si’ afferma che un autentico cambiamento negli stili di vita può esercitare «una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale» (n. 206). Qui ritengo che venga a generarsi una responsabile arte del consumo. Sì, perché cambiare stili di vita è un’arte del vivere, è un’arte civile di fare politica! Solo questa coscienza del valore sociale che ha ogni consumo può trasformare questo nuovo vizio del consumo sfrenato in una nuova virtù del consumo responsabile. Un’azione politica accade quando i «movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. “Acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico”» (n. 206).

Forse molte volte abbiamo trascurato tale etica del consumo, relegandola solo a coloro che esprimono una certa “sensibilità” per le questioni sociali. L’equazione consumo-responsabilità credo debba tornare nell’interesse della stessa indagine teologico-morale, perché la pervasiva «cultura dello scarto» è un paradigma che crea esclusione sociale di quelle persone la cui dignità dipende dal nostro modo di consumare e ancor di più dal modo di produrre. L’evoluzione velocissima dei mercati e delle forme di consumo, non può lasciarci in silenzio, chiede un’arte responsabile perché cresca l’amicizia civile tra i protagonisti dell’economia di mercato. Quando consumiamo in modo responsabile riportiamo armonia tra quello che siamo e le cose che abbiamo.

Il 1° ottobre 2017 papa Francesco agli studenti di Bologna ha parlato del diritto alla cultura come diritto di tutti a poter generare una società solidale, capace di contrastare ogni ingiustizia e anestetizzazione provocata dalla banalità. Papa Francesco in quella occasione ha paragonato la cultura attuale, fatta di consumismo e di esclusione sociale, al «canto delle sirene» che vuole distogliere dal senso vero dell’uomo e delle cose, al quale canto Ulisse e Orfeo cercarono di contrastarlo e opporsi creativamente. Siano le parole del papa la sfida teologico-culturale che vogliamo impegnarci ad intraprendere come un’arte responsabile del consumo: «Ecco il vostro grande compito: rispondere ai ritornelli paralizzanti del consumismo culturale con scelte dinamiche e forti, con la ricerca, la conoscenza e la condivisione».

 

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