Differenza o identità?

 
a cura di Antonio Donato, C.Ss.R.

Redentorista, è docente straordinario di teologia morale sistematica presso l’Accademia Alfonsiana in Roma e docente incaricato presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense. Presidente dell’editrice Edacalf, dal 4 novembre 2022 è Vicepreside dell’Accademia Alfonsiana. È autore di numerosi saggi e articoli.

 
 
Coscienza psicologica e morale: differenza o identità?

…ma poi c’è realmente differenza tra coscienza psicologica e morale? O piuttosto l’opportuna separazione, che vale sul piano “scientifico” ai fini del necessario approfondimento, difatti nella vita concreta non esiste? E chissà che non sia proprio il “distinguo” – sul piano teorico – ad aver contribuito all’oscuramento – a livello pratico – del ruolo morale della coscienza, così che tutto è concesso!

I dotti hanno sempre insegnato che è buona educazione rispondere alle domande evitando l’impiego di altre domande. Ritengo però che la “problematizzazione”, quando è positiva, rappresenti, anche in ambito teologico, un buon modo per far procede la riflessione, ricordando sempre di non distogliere «mai gli occhi dal sacro patrimonio della verità ricevuto dagli antichi» ed insieme «di guardare anche al presente», che comporta «nuove situazioni e nuovi modi di vivere», e apre «nuove vie all’apostolato cattolico» (cf. Giovanni XIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II¸ 11.10.1962).

Accostando la Gaudium et spes, alla ricerca di una possibile risposta alla nostra domanda – differenza o identità tra coscienza psicologica e morale – sembra normale rivolgere l’attenzione al numero 16 della Costituzione pastorale, ove non troviamo una vera e propria definizione ma una descrizione della coscienza quale “costitutivo” dell’uomo integrale, ovvero unità di anima-corpo (GS, 14), la cui intelligenza e libertà (GS, 17) lo pongono, potremmo dire, al di sopra delle cose che lo circondano e che costantemente egli indaga alla continua ricerca della verità e del bene (GS, 15). Nelle sue possibilità – sottolinea sempre la Gaudium et spes – vi è ancora nell’uomo la capacità di trascendere l’universo delle cose, il ché avviene «quando egli fa ritorno a sé stesso», a quella interiorità ove «decide del suo destino» e può «toccare in profondo la verità stessa delle cose» (GS, 14). L’interiorità a cui richiama il numero 14 del testo conciliare, qui preso in considerazione, è la medesima interiorità del numero 16, che è esemplificativa – insieme a “cuore”, “sacrario”, “nucleo segreto” – della “coscienza morale”. Tenendo insieme le istanze dei numeri 14 e 16 emerge dal testo magisteriale un concetto globale e unitario di coscienza che spesso è lasciato cadere, limitandone la nozione alla dimensione “popolare” di testimone o giudice interiore delle proprie azioni personali. Ci sembra invece che a questa dimensione, che potremmo definire etico-valutativa e a cui è dedicato in parte il numero 16, occorre premettere quella che osiamo qualificare psicologica, evocata in Gaudium et spes numero 14 e che intendiamo soprattutto come consapevolezza di sé, del senso della propria vita, e del vero significato delle cose. In tale interiorità – così come emerge dal testo magisteriale – l’uomo coglie l’interezza della sua persona, e di conseguenza scopre e si decide per l’ordine di valori che ne deriva. Da tutto ciò segue che pur volendo ammettere la non identità di coscienza morale e psicologica, la visione (teologica) di “coscienza-interiorità” indicata dal Vaticano II in qualche modo la predica come “compresenza” espressiva della totalità della persona. Se dunque di differenza dobbiamo parlare… questa si pone probabilmente al livello delle funzioni, dei meccanismi che intervengono nella formazione della personalità integrale dell’uomo. È utile allora separare per comprendere ma non per rendere irriducibile la realtà psicologica e morale della coscienza.

Tutto è permesso “in”…

Nella visione conciliare, la coscienza morale oltre ad essere concepita in relazione “a” Dio la cui «voce, che chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intima del cuore: fa questo, evita quest’altro» (GS, 16) è anche, e potremmo ardire in primis, concepita in relazione “con” Dio che nell’interiorità «aspetta» l’uomo (GS, 14), per stare in «intimità» – da solo a solo – con lui (cf. GS, 16). In tempi a noi più vicini, ovvero nel contesto del Sinodo sui/dei Giovani, è stato sottolineato come «a partire da questa prospettiva» – amore che chiama all’amore e al bene – «risulta chiaro come l’esercizio della coscienza rappresenti un valore antropologico universale» in quanto «interpella ogni uomo e ogni donna, non soltanto i credenti, e tutti sono tenuti a risponderle. Ogni persona, grazie all’esperienza di essere amata nella propria unicità all’interno della rete di relazioni sociali che sostengono la sua vita, scopre e riceve la chiamata ad amare, che interpella la sua coscienza come esigenza imperativa, facendosi norma» (Sinodo dei Vescovi 2018, IL, 117).

A tal proposito, mi sia concesso richiamare un breve passaggio della Pratica di amar Gesù Cristo (1768), opera di Alfonso Maria de Liguori (1696-1787), ove il patrono dei confessori e dei moralisti, indica, con le parole di sant’Agostino, la medesima “prospettiva” assorgendola a legge fondamentale dell’essere e del vivere cristiano: ama, et fac quod vis: ama Dio e fa quel che vuoi. Come chiarisce il Santo Dottore, il fa quel che vuoi non va inteso come puro arbitrio, ma come esercizio responsabile della libertà in relazione: «ad un’anima che ama Dio, lo stesso amore insegna a non fare mai cosa che gli dispiaccia, ed a far tutto ciò che gli gradisce» (cap. I, n. 1, 1). Se la vita dunque si “chiude” all’a/Amore, e «non vi è più spazio per gli altri», «non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene» allora si può incorrere nel rischio – come scrive papa Francesco in Evangelii gaudium – di “isolare” la propria coscienza, sintomo, insieme al cuore comodo e avaro e alla ricerca malata dei piaceri superficiali, della tristezza individualistica che segna, almeno in parte, il mondo attuale (cf. EG, 2).

Ciò che distingue l’agire del buon Samaritano nella parabola lucana (10,33) è il suo essere capace di compassione (ἐσπλαγχνίσθη), ovvero la capacità di saper “vedere”, di saper tornare all’interiorità di sé stesso e, nel “suo” ascolto, di sottrarsi all’indifferenza di comodo che “passa oltre” (cf. FT, 30; 57; 68). Ogni giorno – scrive papa Francesco in Fratelli tutti – «ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza» (FT, 69), l’importante, diremmo noi, è non perdere di vista l’interezza di ciò che siamo per decidere secondo l’ordine di valori che ne deriva.

Comments (1)

  • Pasquale Fracassosays:

    Gennaio 31, 2023 at 9:47 am

    La coscienza, valore antropologico universale… da ribadire fortemente oggi. L’individualismo e il relativismo sono una seria minaccia perché la coscienza sia riconosciuta tale!

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