Persona e carcere

Gianpaolo LacerenzaMinistro provinciale dei Frati minori cappuccini di Puglia, è docente di teologia morale presso l’Istituto teologico Regina Apuliae di Molfetta e l’Istituto teologico Santa Fara in Bari, Facoltà Teologica Pugliese.

La riflessione sulla “tensione biblico-sociale” del rapporto tra giustizia e misericordia, suscitata dalla domanda dello studente Marco Ruggiero, interpella a cerchi concentrici la persona che delinque insieme alla vittima o le vittime, la società e le sue leggi penali, la comunità cristiana e il suo agire, il quadro etico-valoriale del punire e del recuperare. La teologia morale, che storicamente ha teorizzato sul valore morale della colpa e della pena, oggi è chiamata ad abitare una frontiera tra il “dentro” e il “fuori” del carcere, il confine tra peccato e reato, la scommessa del recupero e del reinserimento socio-ecclesiale di chi delinque. La prof.ssa Horak ha lanciato una traiettoria di ricaduta sociale del significato biblico della giustizia e misericordia che ispira oggi in Italia, sperimentate e sperimentabili modelli di giustizia riparativa e rigenerativa. La testimonianza di fra Luca Santato dal carcere di Maputo in Mozambico sollecita la nostra disponibilità ad attivare come comunità ecclesiale, anche lì dove le condizioni di detenzioni sono legate alle povertà contestuali, cammini di riconciliazione e liberazione.

Il carcere come “vendetta sociale”

In Italia nei 189 Istituti di pena sono presenti al 31 dicembre 2023 circa 60.000 detenuti di cui stranieri 18.894 (fonte Ministero della Giustizia). L’età va dai 21 ai 70 anni e quelli compresi tra i 50 e i 59 sono in numero maggiore. Per tipologia di reato al primo posto vi sono detenuti cui viene contestato il reato contro il patrimonio (34.126 detenuti), poi a seguire quello contro la persona, per droga, contro la pubblica amministrazione, associazione di stampo mafioso, armi, contro la famiglia e altri. La carcerazione è una forma custodiale-afflittiva che associa a sé anche il principio costituzionale (art. 27) di un atteggiamento rieducativo e riabilitativo della pena. È sancito dunque un obbligo tassativo non solo di infliggere una pena certa e giusta da parte dello Stato, a norma di legge, per il bene e la tutela della sicurezza collettiva e il risarcimento degli offesi, ma garantire al contempo quel principio di umanizzazione e funzione educativa della pena finalizzata al reinserimento sociale del reo. Nell’immaginario collettivo culturale e nella narrazione mediatico-politica il carcere però è simbolo di una vendetta che deve saziare la sete di giustizia. Dunque la pena è considerata certa quando ha alcuni requisiti emotivo-repressivi: lunga durata, condizioni di vita minimali, senza riduzione o riscatto alcuno, durissima ed eterna per determinati reati. È evidente che, nonostante gli edifici penitenziari siano inadeguati, il personale della polizia penitenziaria sia sotto numero, gli investimenti economici non siano rivolti al recupero di chi delinque, ma alla sua carcerazione sicura. Pur essendo encomiabile il lavoro pastorale nella carceri da parte di molte realtà ecclesiali, il supporto di molteplici associazioni di volontariato, resta fragile e debole, a volte nemmeno tentato, il riscatto socio-educativo delle persone ristrette. 

La società civile e politica è interpellata dalle relazioni quotidiane che si instaurano nei vari contesti urbani e periferici, fatti di differenze culturali, di disagi economici, di emarginazione e poche risorse investite nella prevenzione della criminalità. Pertanto può una società invocare la propria sicurezza solo con la “vendetta sociale” del carcere? Se è un obbligo morale dello Stato punire chi delinque, non lo è anche il recuperare, rieducare e reinserire la persona che sbaglia?

Un’etica della misericordiosa giustizia

Papa Benedetto XVI nell’incontro con i detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia in Roma, afferma una verità stupenda: «Giustizia e misericordia, giustizia e carità, cardini della dottrina sociale della Chiesa, sono due realtà differenti soltanto per noi uomini, che distinguiamo attentamente un atto giusto da un atto d’amore. Giusto per noi è “ciò che è all’altro dovuto”, mentre misericordioso è ciò che è donato per bontà. E una cosa sembra escludere l’altra. Ma per Dio non è così: in Lui giustizia e carità coincidono; non c’è un’azione giusta che non sia anche atto di misericordia e di perdono e, nello stesso tempo, non c’è un’azione misericordiosa che non sia perfettamente giusta» (…)

 Questa prospettiva stimola la teologia morale a studiare ed approfondire in uno spazio e un luogo ristretto, condizionato e limitato nella libertà, le possibilità-risorse che la coscienza morale della persona reclusa possa cogliere in sé come forza sanante di misericordia e giustizia. Non sarà una sentenza giudiziaria a risvegliare la parte più intima ed estrema della coscienza ovvero la sua dignità umana e dignità di relazione, o perlomeno non solo. Pertanto un recupero della persona che delinque a partire dal nostro approccio teologico, insieme al contributo delle altre scienze umane che sono già protagoniste in carcere, si esprime come un riportare la persona a se stessa attraverso un anticipo di fiducia. Esso non nega il male commesso, ma per riconoscerlo bisogna riabbracciare la dignità di persona e di persona in relazione che risiede nel cuore della coscienza. Per chi crede nel Dio di Gesù Cristo riconoscerà in questo processo la misericordiosa giustizia, che è grembo che accoglie l’altro in un’alleanza senza giudizio orientando nel solco di ciò che è retto e giusto la propria responsabilità, liberata dalla grazia di Cristo.

L’incidenza del reato sulla propria storia personale, porta dunque la coscienza alla comprensione di esso in relazione al valore della propria dignità, insieme ai valori morali e sociali in gioco, al necessario confronto con la legge di uno Stato, argine all’ulteriore possibilità di violenza che potrebbe essere esercitata sugli altri. Narrare il fallimento di vita serve solo nella misura in cui si attiva il narrare «il desiderio di bene», non solo quello di cui non si è stati capaci, ma anche quello che la volontà vuole, desidera, anela, cerca. L’elaborazione del vissuto personale va coniugato con l’ascolto del dolore delle vittime. Il «fare memoria» di ciò che ha spezzato il rapporto con se stessi e gli altri è già un primo passo nel risarcire i danni della violenza esercitati sulle vittime. Un’etica della misericordiosa giustizia è svelamento della verità di sé, un processo formativo in cui tentare di ricomporre la frattura tra bene personale e bene comune, a partire dalla condizione di disagio di ognuno, cercando di lavorare per restituire al bene comune l’impegno della propria responsabilità a forme di riparazione solidale e fraterna.  

Una società misericordiosa e giusta sarà più sicura

La comunità cristiana, a fronte della lunghissima esperienza nella pastorale delle carceri, può sensibilizzare a più livelli la cura degli offesi e degli offensori. Visitare i carcerati, senza dimenticare la voce delle vittime, è «vestire» di dignità gli uni e gli altri in una coralità di intenti, di opere e di progetti e favorire un umanesimo profetico e di liberazione. La corresponsabilità della società e delle comunità cristiane, nella molteplicità dei disagi sociali e dell’efferatezza della delinquenza, è chiamata oggi ad aprire la sartoria del vestito nuovo non per coprire il male o rimuoverlo, ma per vestire la nudità della persona, gesto del mettere in opera la misericordia. Compito della teologia morale sarà evangelizzare il senso della pena, insistendo sull’urgenza di favorire il reinserimento delle persone condannate e, al contempo, di promuovere tale giustizia riconciliativa in grado di restaurare le relazioni di armonica convivenza spezzate dall’atto criminoso.

Sono persuaso che la sicurezza di una società dipenda dal grado di corresponsabilità civile, ecclesiale, politico-economica nel prevenire la criminalità, recuperare la persona che delinque e stabilire, oltre le norme, spazi educativi dove respirare la speranza, così come ha affermato papa Francesco nel Giubileo dei carcerati il 6 novembre del 2016: ««Nella Lettera ai Romani, l’apostolo Paolo parla di Dio come del «Dio della speranza» (Rm 15,13). È come se volesse dire anche a noi: “Dio spera”; e per paradossale che possa sembrare, è proprio così: Dio spera! La sua misericordia non lo lascia tranquillo. È come quel Padre della parabola, che spera sempre nel ritorno del figlio che ha sbagliato (cfr. Lc 15,11-32). Non esiste tregua né riposo per Dio fino a quando non ha ritrovato la pecora che si era perduta (cfr. Lc 15,5). Se dunque Dio spera, allora la speranza non può essere tolta a nessuno, perché è la forza per andare avanti; è la tensione verso il futuro per trasformare la vita; è una spinta verso il domani».

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