La conversione degli organismi di partecipazione in soggetti di discernimento ecclesiale

Il Documento finale del Sinodo sulla sinodalità (2021-2024) indica gli organismi di partecipazione (p.e. i Consigli pastorali diocesani e parrocchiali) come soggetti istituzionali del discernimento ecclesiale e auspica un intervento sul funzionamento di questi organismi perché diventino sempre di più effettivi luoghi di partecipazione di tutti i battezzati al discernimento comunitario e alla maturazione delle decisioni ecclesiali (cf. Documento Finale nn. 81-108).

Alla luce di quanto emerso in questi anni nel cammino sinodale chiediamoci quali possono essere le scelte concrete per favorire questa effettiva conversione sinodale dei Consigli pastorali, scelte a livello organizzativo (1.) e scelte a livello formativo (2.)[1]

Conversione organizzativa e strutturale

Sicuramente una prima scelta ti tipo normativo è quella di dare dignità e valore agli organismi di partecipazione esistenti, come i Consigli pastorali diocesani e parrocchiali. Già il cammino sinodale è approdato ad alcune proposte in questo senso, come introdurre nel Codice la obbligatorietà del Consigli pastorali e il superamento del linguaggio canonico che ne definisce il voto come «solamente consultivo» (cf. Documento finale nn. 104, 92).

A queste scelte possibili, necessarie ma non sufficienti, se ne potrebbero aggiungere altre per rendere i Consigli pastorali realmente soggetti di processi di discernimento ecclesiale e di processi decisionali sinodali. Per esempio si potrebbe cambiare la norma che prevede il decadimento del Consiglio pastorale diocesano (CPD) al cambiamento del vescovo e, ove fosse presente, cambiare la norma simile per il Consiglio pastorale parrocchiale al cambiamento del parroco. In tal modo gli organismi di partecipazione si porrebbero realmente in una dinamica di corresponsabilità e di maturazione delle scelte insieme ai loro pastori; i Consigli infatti rappresentano la memoria ecclesiale di un percorso pastorale nel quale si inseriscono le nuove guide ecclesiali, le quali hanno bisogno innanzitutto di mettersi in ascolto della storia e della vita delle loro comunità: la permanenza dei Consigli pastorali anche nel cambio di guida ecclesiale, verso la loro naturale scadenza per garantire il rinnovamento necessario, potrebbe dare un segno importante verso la loro effettiva valorizzazione.

In merito alla difficoltà del passaggio da Consigli come solamente luoghi di informazione e di ascolto a Consigli come soggetti comunitari dove avviene la maturazione delle decisionali ecclesiali, possono essere pensati dei cambiamenti e delle procedure che “regolino” e sostengano il discernimento comunitario dalla fase dell’ascolto fino a quella delle scelte e anche dopo, fino alla verifica e alla rendicontazione. Si supererebbe forse così il dibattito sul valore consultivo o deliberativo degli stessi organismi: nella responsabilità differenziata di laici e pastori in merito al processi decisionali, è possibile correlare il decision-making (il maturare le decisioni) al decision-taking (il prendere le decisioni) attraverso istanze e regole di garanzia e controllo: sia per salvaguardare il diritto dei pastori di esercitare il loro ministero di guida in libertà di coscienza nel prendere le decisioni –  una libertà però che non è “slegata” dal processo di maturazione del consenso all’interno dei Consigli – sia per salvaguardare il diritto dei fedeli di essere ascoltati e di partecipare responsabilmente alla maturazione delle decisioni ecclesiali, senza dipendere dalla benevolenza del pastore di turno. Ad uno svolgimento più partecipativo dei lavori dei Consigli potrà contribuire inoltre la regolamentazione di forme di guida sinodale e plurale degli organismi di partecipazione, come già avviene in alcune realtà, attraverso l’istituzione di segreterie o consigli di presidenza intorno al pastore che presiede, così come anche l’affidamento della conduzione delle riunioni a moderatori o facilitatori laici.  In concreto si tratta di pensare un sostegno al metodo di lavoro dei Consigli pastorali, oltre che formativo, anche nella scrittura dei regolamenti e nella verifica del loro lavoro: l’istituzione di un servizio o di un ufficio a livello nazionale che si occupi della formazione, della mappatura, del lavoro dei CPD e la rispettiva istituzione di servizi diocesani analoghi – ove già non ci fossero – per il sostegno dei Consigli pastorali parrocchiali, aiuterebbe significatamene in questo senso a progredire nel metodo del discernimento comunitario.

Non solo la valorizzazione e il rafforzamento degli organismi esistenti, ma anche l’istituzione di nuovi organismi di partecipazione porterebbe ad un volto di Chiesa più strutturalmente sinodale. In alcune proposte emerse dalla fase sapienziale del cammino sinodale si parla di un più stretto rapporto tra CPD e Consiglio presbiterale. Forse dobbiamo chiederci però se c’è effettivamente bisogno di due organismi sinodali distinti, ma così vicini nelle competenze: entrambi organi consultivi del vescovo, entrambi chiamati ad operare un discernimento su questioni pastorali a livello diocesano. Il governo della diocesi, come specifico compito del Consiglio presbiterale in aiuto al vescovo, può non essere considerato una questione pastorale? La progettazione e la verifica delle scelte pastorali, che compete al CPD insieme al vescovo, non interpellano sempre il governo della Chiesa locale? Per quanto a causa del legame sacramentale tra vescovo e presbiteri la loro corresponsabilità è da intendersi in forma più stretta rispetto a quella tra vescovo e laici, c’è da chiedersi se questo principio gerarchico sia sufficientemente contemperato con il principio comunionale della Chiesa nelle attuali forme di partecipazione e corresponsabilità ecclesiale. Una proposta possibile è quella di andare verso un unico organismo sinodale diocesano, che tenga insieme principio gerarchico e principio comunionale in una corresponsabilità differenziata di tutte le componenti del popolo di Dio ivi rappresentate, perché questo diventi il “senato” pastorale e unitario del vescovo, lasciando che alla discussione del Consiglio presbiterale vengano affidate dal vescovo alcune tematiche pù specifiche.

Infine, dal Sinodo emerge la necessità di potenziamento della sinodalità e della collegialità a livello regionale, nazionale e continentale (cf. Documento finale 127). Le sfide del tempo presente, infatti, necessitano decisioni ecclesiali che possano essere costruite in forma strutturalmente partecipata ad un livello più ampio di quello diocesano e che possano contribuire a disegnare un volto di Chiesa inculturato anche nella società post-moderna e pluralista dell’Occidente, per esempio in Italia o in Europa, capace di essere missionaria e compagna di strada degli uomini e delle donne che abitano questo tempo e questa cultura.  Pensando all’esperienza del Cammino sinodale italiano e alla risorsa che ha rappresentato il suo Comitato nazionale, sia per il raccordo con il lavoro sinodale delle diocesi sia per il servizio al discernimento dei vescovi italiani riuniti in assemblea, una scelta possibile potrebbe essere quella dell’istituzione di un Consiglio pastorale o una Assemblea ecclesiale a livello italiano, per rendere permanente e strutturale questa dinamica di servizio e di raccordo tra le Chiese in Italia, al fine di ascoltare, approfondire e progettare proposte pastorali da sottoporre all’Assemblea della Conferenza Episcopale, in sintonia con gli uffici e servizi della CEI, in seno ad un organismo rappresentativo delle diverse componenti e realtà ecclesiali italiane.

Conversione formativa e culturale

Non saranno sufficienti le riforme normative, seppur necessarie, a fare degli organismi di partecipazione dei luoghi di discernimento comunitario ed espressioni significative di un volto sinodale di Chiesa; per fare questo sarà fondamentale anche un importante investimento e cambio di paradigma formativo ecclesiale verso modelli di formazione integrale e congiunta (cf. Documento finale n. 143).

Il passaggio a modelli di formazione integrale, innanzitutto, implica il cambiamento da una cultura formativa ecclesiale ancora preminentemente intellettualistica e deduttiva (dalle norme alla vita, dalla teoria alla pratica, dalla teologia alla pastorale etc.) a modelli formativi che sviluppino la “riflessività in azione”, accompagnando cioè la persona in formazione ad apprendere nella prassi e a partire dalla vita (personale, relazionale, comunitaria, pastorale etc.). L’approccio riflessivo e narrativo nella formazione ecclesiale offre un necessario cambio di paradigma che recupera la dignità della prassi, perché la riconosce come luogo di raffinamento ed elaborazione della teoria, oltre ogni riduzionismo oppositivo tra teoria e prassi, ma verso una reale circolarità e integrazione tra pensiero e realtà. Tale approccio non trascura la dimensione teorica o di approfondimento teologico, ma permette di partire dalla vita degli operatori pastorali e da tutte le sue dimensioni (emotiva, spiritale, intellettuale, corporea etc.), per mettere questa realtà al centro della formazione, per prendere coscienza delle proprie rappresentazioni di fede, per confrontarle con quelle degli altri, con i criteri offerti dalla Parola di Dio e con le conoscenze acquisite dalla teologia e dalle scienze umane, per operare il necessario discernimento comunitario e delineare insieme le possibili scelte da fare e i passi da compiere. Tenendo insieme teoria e pratica, fede e vita, teologia e scienze umane, la formazione ecclesiale potrà offrire non solo buoni contenuti, cioè principi da applicare, ma anche un bagaglio di priorità per scelte pastorali da compiere, cioè azioni operative che le stesse persone coinvolte nella formazione, in quanto soggetti responsabili, percepiscono come imperativi da seguire, i soli in grado di mettere in moto il cambiamento personale e comunitario.

Per imparare il discernimento comunitario, la formazione integrale va accompagnata dalla scelta della formazione congiunta: riscoprire l’importanza della dignità battesimale nella responsabilità differenziata dei diversi soggetti che compongono la Chiesa (o un Consiglio pastorale) significa concretamente riconoscere la necessità di formarsi insieme: pastori e fedeli. Le forme clericali e non sinodali di Chiesa sono superate non solo da un sano aggiornamento teologico, ma sono vinte da esperienze concrete di conoscenza e scambio, di relazione e di reciproco apprendimento tra le persone, a prescindere dalle loro differenze di doni e di servizi nella Chiesa. Il merito di questo modello di formazione congiunta (laici e laiche, presbiteri, vescovi, religiosi e religiose etc.) è innanzitutto quello di offrire la possibilità di crescere nella conoscenza e nella stima gli uni degli altri, di permettere di imparare gli uni dagli altri e di far superare qualche pregiudizio e pre-comprensione degli uni sugli altri. Formarsi insieme non cancella le differenze di ministeri e di compiti all’interno della Chiesa, ma permette che si possa crescere nella valorizzazione dei reciproci carismi e nel rispetto della corresponsabilità di tutti nei processi di discernimento e di decisione ecclesiale.

[1] Una versione più ampia di questo contributo è pubblicata in F. Zaccaria, «Consigli pastorali e discernimento comunitario. Per una conversione sinodale degli organismi di partecipazione», in V. Mignozzi – A. Lattanzio (edd.), Per una Chiesa sinodale. Processi, figure, istituzioni, Studium, Roma 2024, 107-130.

Francesco Zaccaria, docente straordinario di Teologia pastorale presso la Facoltà Teologica Pugliese e membro della Presidenza del Comitato nazionale per il Cammino sinodale delle Chiese in Italia.
Tra le sue ultime pubblicazioni sul tema segnaliamo: «Consigli pastorali e discernimento comunitario. Per una conversione sinodale degli organismi di partecipazione», in V. Mignozzi – A. Lattanzio (a cura di), Per una Chiesa sinodale. Processi, figure, istituzioni, Studium, Roma 2024, 107-130.

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