
Martin M. Lintner OSM
Sudtirolese, nato nel 1972, membro dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle facoltà di teologia cattolica di Innsbruck e di Vienna, oltre che a Roma. Già presidente della Associazione europea di teologia cattolica (2013-2015), oggi è professore ordinario di teologia morale e teologia spirituale allo Studio teologico accademico di Bressanone, di cui è anche preside. In italiano ha pubblicato, fra l’altro: La riscoperta dell’eros (EDB, Bologna 2015); Cinquant’anni di Humanæ vitæ (Queriniana, Brescia 2018); Etica animale. Una prospettiva cristiana (Queriniana, Brescia 2020). Recentemente ha pubblicato un manuale dal titolo Teologia morale sessuale e familiare. Una prospettiva etica relazionale (con un contributo di Gaia De Vecchi).

Professor Lintner, il delicato rapporto tra natura e cultura è spesso vittima di approcci ideologici che tentano di imporre uno dei due termini a scapito dell’altro. Quale può essere una via possibile per avvicinarsi alle diverse tematiche morali che si affacciano sul panorama contemporaneo?
Secondo me è importante chiedersi prima quale concetto di natura abbiamo, perché il termine natura, sia nell’ambito biologico che nell’ambito filosofico, può avere vari significati. Su questo dobbiamo far chiarezza.
Il secondo punto è che dobbiamo capire che non abbiamo un accesso immediato alla natura come tale, ma ogni approccio – dopo aver chiarito cosa intendiamo per natura – è formato culturalmente. Pertanto, il nostro punto di vista, che si è sempre sviluppato storicamente, culturalmente, e anche biograficamente, rispecchia sempre la nostra concezione di una “natura acculturata”. La natura biologica come tale, per esempio, può esistere, ma non per noi, perché su di essa abbiamo sempre uno sguardo già preformato.
Da un punto di vista etico, mi sembra importante dover capire che – e questo è il mio personale approccio – la natura non è semplicemente il dato di fatto che ci viene posto innanzi, ma è sempre una nostra visione di come formare, di come plasmare quei “dati di fatto” per andare verso una via che possiamo dire “di senso”, per realizzare un certo significato, in cui noi crediamo e che possiamo realizzare attraverso gli strumenti che abbiamo a disposizione, tra cui anche i fattori di ciò che comunemente chiamiamo natura. Interpretiamo allora quello che intendiamo per natura alla luce di una specifica visione antropologica, ponendoci la domanda di senso in merito all’umana esistenza.
Per dirlo in poche parole, ci dobbiamo sempre chiedere come plasmare la nostra vita, che non ci è soltanto data, ma anche donata, cioè affidata insieme al compito di trasformarla in un’esistenza realizzata in pienezza.
Il concilio Vaticano II parla del matrimonio come «intima comunità di vita e di amore coniugale» (GS, 48). Quale crisi sta attraversando oggi la realtà dell’amore coniugale e quale può essere una risposta cristiana a questa difficoltà?
Io credo che nella società odierna incontriamo una certa difficoltà a discernere tra innamoramento e amore. Molto spesso riduciamo l’amore al sentimento dell’innamoramento. Dobbiamo capire che l’amore si traduce in una scelta, in un atto volontario, in un sì di dedizione a un’altra persona che inizialmente sicuramente può essere motivata anche da un sentimento di innamoramento, ma che dopo questa prima fase certamente permane in maniera differente. È allora che si parla di amore come la possibilità di continuare una relazione proprio sulla base di una decisione, di un sì per un’altra persona, senza farla dipendere in ogni momento da un sentimento possibilmente fugace. Questa scelta e questo cammino di maturazione non sono sempre facili da compiere.
D’altra parte, credo che dobbiamo anche riconoscere che alcune relazioni di coppia possono finire. A volte una relazione può terminare senza che questo debba essere inteso come un fallimento. Penso alle coppie la cui separazione può essere frutto di un processo di maturazione e di una scelta precisa di liberare il partner da una relazione in cui la coppia non può più vivere e crescere insieme.
Sono quindi da considerare i due aspetti: da una parte la Chiesa deve riconoscere che oggi, nella vita di diverse coppie, questo perdurare nel tempo può concludersi con una separazione, senza necessariamente intendere questa fine come un fallimento, e dall’altra capire che l’amore non è solo innamoramento, ma anche una decisione consapevole e ferma che non si mette in discussione arbitrariamente e che non si fa dipendere da come ci si sente.
È ritornato per diverse volte al centro dell’attenzione mediatica il tema del rapporto tra orientamento sessuale e formazione dei candidati al ministero presbiterale. Non sono forse maturi i tempi per un approccio a questa tematica che non preveda necessariamente una distinzione tra i vari orientamenti, ma metta in luce il cammino di integrazione e valorizzazione della componente affettiva sessuale di ogni candidato?
Sì, i tempi sono maturi e bisogna andare in questa direzione. Nell’Istruzione vaticana “circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri” si dice che le persone omosessuali non possono accedere al presbiterato. Si adduce l’argomento che queste persone sono gravemente ostacolate nello sviluppo di un corretto modo di relazionarsi a uomini e donne. E questo secondo me è un errore, perché la maturità personale e affettiva per poter stabilire relazioni corrette con gli altri non dipende dall’orientamento sessuale.
Dipende piuttosto dalla possibilità che queste persone hanno di crescere in un ambiente in cui possono anche maturare in quella che è la loro identità e il loro orientamento sessuali. Se vivono in un ambiente dove questo non è permesso, certamente è compromesso, o almeno reso più difficile, anche il processo complessivo di maturazione personale.
Dall’altra parte, ci sono molte persone eterosessuali con deficit a livello di maturazione affettiva. Sappiamo, per esempio, che proprio questo tipo di mancanza, e non la pedofilia, è alla base degli abusi sessuali di molti presbiteri e religiosi.
La maturità affettiva non dipende tanto dall’orientamento sessuale, ma da un processo personale di sviluppo in ogni tipo di orientamento. Questa maturità include anche la disponibilità e la capacità di vivere l’astinenza sessuale, indipendentemente dall’orientamento sessuale, dato che il celibato è una condizione per l’ordinazione sacerdotale da parte della Chiesa cattolica. Inoltre, sappiamo che per varie cause una buona percentuale dei sacerdoti è omosessuale. Studi evidenziano che la percentuale tra i sacerdoti è più alta rispetto al resto della popolazione. Chiediamoci perché. Tuttavia, vorrei sottolineare – e questo è più importante – che molti di questi sono ottimi presbiteri, confutando la supposizione che il loro orientamento sessuale sia di impedimento a svolgere validamente il servizio sacerdotale.
Alla luce dei diversi report sugli abusi pubblicati, quali riflessioni teologico-morali sono necessarie per continuare ad orientare il lavoro che la chiesa sta portando avanti ormai da diversi anni su questo tema?
Secondo me, bisogna lavorare su due fronti. Il primo riguarda un cambiamento di mentalità: come Chiesa dobbiamo ancora veramente capire e internalizzare che le “vittime di abuso” vanno poste al centro della nostra attenzione, cioè, dobbiamo adottare la prospettiva di sofferenza che queste hanno subito e vissuto. Ancora troppo spesso la nostra preoccupazione si concentra più sulle conseguenze per la Chiesa, sulla tutela del suo buon nome, sul timore di mettere in cattiva luce il clero intero. Però se veramente capiamo che prima di tutto abbiamo un dovere nei confronti delle persone che hanno subito abusi sessuali e partiamo dal loro dolore, allora saremo in grado di rendere loro veramente giustizia.
Il secondo fronte concerne il nostro impegno per una prevenzione effettiva. Dobbiamo cercare di capire sempre meglio cosa in passato ha offerto a questi crimini un terreno favorevole anche all’interno della Chiesa. Una causa sicuramente concomitante è la mancata maturità affettiva dei sacerdoti, che quindi dovrebbe diventare un elemento decisivo nel processo di formazione. Un altro fattore è rappresentato da ciò che chiamiamo le “cause sistemiche”. Oggi sappiamo che l’abuso sessuale rappresenta sempre anche un abuso di potere e di fiducia. Ai sacerdoti, ai religiosi, agli assistenti spirituali e pastorali viene affidato un potere e dato un “credito” di fiducia, sia da parte della Chiesa stessa che affida loro un compito, sia da parte dei genitori e delle famiglie. Questo potere non è di per sé negativo, perché è la capacità di fare qualcosa in favore di qualcuno. Ma se questo potere di cui dispongono, anziché venir esercitato per il bene dei bambini e dei giovani, viene usato come strumento per arrivare alla soddisfazione dei propri bisogni, a spese di chi viene loro affidato, allora si tratto di abuso di potere.
Dobbiamo riflettere su come, durante la formazione dei candidati al presbiterato, educare ad esercitare il potere che ci è stato conferito per il bene delle persone a noi affidate. Per farlo, è essenziale conoscere e gestire i nostri propri bisogni, per evitare che vadano a danneggiare chi ci offre fiducia. Dobbiamo anche imparare a conoscere chi ci viene affidato e chi dipende da noi, sia a livello affettivo ed emotivo che a livello spirituale, per garantire che le relazioni non diventino abusive.
Oggi si parla anche di abuso spirituale, quando una persona con autorità spirituale lega un’altra persona a sé per soddisfare il proprio bisogno di vedersi valorizzato, o magari per colmare una mancata autostima; e allora la prendo dall’altro, che induco a dipendere da me invece di accompagnarlo in una crescita autonoma. Questo tocca anche la delicata questione di aiutare l’altra persona a riconoscere e seguire la volontà di Dio. Spesso la propria volontà viene venduta all’altro come volontà di Dio anziché di abilitare l’altra persona a un discernimento personale e autonomo. Sono dinamiche a livello interpersonale di cui dobbiamo essere consapevoli e che richiedono particolare attenzione.
Tuttavia, questo avviene anche all’interno di strutture sociali, oltre che ecclesiali. Abbiamo bisogno di meccanismi di trasparenza nonché di metodi di controllo. Questo non significa che dobbiamo istituire un sistema di spionaggio, ma che abbiamo bisogno di procedure rigorose e regolamentate per la sorveglianza. Come si gestisce il potere che viene delegato ad altri? A chi si deve rendere conto? Viene utilizzato per il bene delle persone di cui ci si prende cura? Come si reagisce in caso di comportamenti sospetti? Chi è responsabile? Il solo sacerdote o anche i superiori che gli assegnano un compito pastorale? Dove un sacerdote può trovare aiuto e sostegno in caso di difficoltà? Le statistiche dimostrano che chi commette abusi sessuale normalmente non lo fa all’inizio del proprio servizio pastorale, ma dopo molti anni, spesso quando vive una crisi esistenziale.
E qui in passato abbiamo sbagliato molto, perché abbiamo pensato di poter curare queste persone o mandarle semplicemente in un’altra parrocchia. Dobbiamo intervenire in modo differente, soprattutto quando si verifica un fatto. L’obiettivo deve essere quello di garantire che l’ambiente chiesa sia un luogo sicuro per bambini e giovani. L’abusatore deve prendersi la responsabilità nei confronti della persona da lui abusata, ma anche di fronte allo Stato, civilmente, e nei confronti della Chiesa. Soprattutto bisogna provvedere ad assegnare giuste sanzioni e a vietare a queste persone l’accesso a luoghi dove possono reiterare quanto commesso, proprio per evitare potenziali future vittime.
In conclusione: quali sono le sfide per la teologia morale oggi?
Se finora abbiamo parlato di abusi sessuali, ora ci possiamo chiedere: cosa emerge? A cosa ci sensibilizza il confronto con questo fenomeno? In negativo ci mostrano come i minori o persone fragili possono essere ferite e manipolate nella sfera sessuale, che sempre tocca l’integrità fisico-psichica e la dignità di una persona. Nella sua revisione del Codice Penale della Chiesa, Papa Francesco ha giustamente classificato l’abuso sessuale non più come una violazione del celibato, ma come una violazione della dignità delle persone che hanno subito l’abuso. Credo, quindi, che un criterio morale fondamentale che dobbiamo integrare molto di più anche nell’etica sessuale è quello della tutela della vulnerabilità e della dignità della persona umana.
In passato abbiamo messo al primo posto il principio della procreazione. Io credo che ora sarebbero da mettere al centro la dignità e la tutela della persona in quegli ambiti in cui è vulnerabile. Siamo vulnerabili nella nostra corporeità e in modo particolare nella nostra genitalità. La sessualità umana può essere vista come un punto dove si incontrano dimensione fisica e psichica.
La vulnerabilità deriva anche dal fatto che siamo inseriti in una rete di relazioni. Cresciamo e viviamo, anche come soggetti autonomi, nei rapporti con gli altri. Una relazione può significare anche dipendenza, più o meno forte. L’abuso viene sperimentano dalla vittima come un sentimento di estrema impotenza, di dipendenza completa da un altro che mi usa per sé e i suoi interessi e non cerca il mio bene. La vulnerabilità riguarda quindi anche l’attitudine a relazionarsi e a fidarsi. Le persone che hanno subito abuso riferiscono che non è solo la loro relazione col proprio corpo e con la propria sessualità a essere compromessa, ma anche la capacità di relazione e di fiducia negli altri, che comprende anche la fede in un Dio buono.
A livello di sessualità, non possiamo che riconoscere la fragilità dell’essere umano: sviluppare una fondamentale sensibilità per questo aspetto dovrebbe essere un punto di partenza per un’odierna morale sessuale.

Comments (1)
Teresa Lorussosays:
Febbraio 18, 2025 at 12:00 amCredo che sia stia camminando verso una chiesa “nuova” che possa accogliere “tutti”nel rispetto delle differenze umane e di genere .