Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere?

Roberto Massaro

È professore associato di Teologia morale presso la Facoltà Teologica Pugliese. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Sui sentieri di Amoris laetitia. Svolte, traguardi e prospettive, Cittadella editrice, Assisi 2022 (a cura di); Si può vivere senza eros? La dimensione erotica dell’agire cristiano, Messaggero editore, Padova 2021; L’etica della cura. Un terreno comune per un’etica pubblica condivisa, EdAcAlf-LUP, Roma 2016. Dal 2023 è direttore della rivista Apulia Theologica. Insieme a Giorgio Nacci e Gianpaolo Lacerenza è curatore della pagina Promundivita.it.

Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere è il titolo di un celebre testo di John Gray, psicologo e saggista statunitense, che sintetizza uno stereotipo secondo il quale ancestrali differenze opporrebbero l’universo maschile a quello femminile. Gli uomini sarebbero – per “natura” – diversi dalle donne e, quindi, più adatti ad alcune particolari mansioni: dallo spirito guerriero simboleggiato dal dio Marte alla capacità di formulare giudizi imparziali e razionali; al contrario, lo spirito “venusiano” attribuirebbe alle donne inclinazioni diverse e maggiormente legate ai sentimenti e all’emotività.

Questo mese, il nostro blog ospita la domanda di Giuseppe Basile, studente al V anno di teologia presso la Facoltà Teologica Pugliese, che interroga sui nuovi possibili percorsi di accompagnamento e di integrazione delle coppie conviventi, dopo la pubblicazione di Amoris laetitia. La risposta della professoressa Gaia De Vecchi si concludeva con due piste per avviare un «necessario ripensamento» in teologia morale: un nuovo equilibrio tra fine procreativo e fine unitivo e una rinnovata riflessione sulla donna. Lasciando la prima questione all’approfondimento del professor Lintner, vorrei, in poche battute, mostrare quanto riflettere oggi sul ruolo della donna sia fondamentale per una nuova teologia della coppia.

 
L’ascolto di una “voce differente”

Sappiamo quanto lo stereotipo celato dietro il titolo del libro di Gray sia stato avversato da molti esponenti degli studi di genere che hanno visto nascondersi, dietro la motivazione di presunte differenze di ordine biologico e “naturale”, delle discriminazioni fondate esclusivamente su processi culturali che hanno favorito il patriarcato.

Recentemente, alcuni studi sul cervello umano hanno cercato di rispondere a questa questione, evidenziando come le diverse esperienze di vita, l’educazione ricevuta e la frequentazione di alcuni contesti piuttosto che altri sono in grado di “cambiare” la biologia del cervello. Non sarebbe vero, pertanto, secondo questi studi, che il cervello femminile renderebbe le donne più adatte a mansioni di cura, mentre quello maschile aiuterebbe gli uomini ad assumere ruoli di governo. Piuttosto, lo sviluppo di una determinata cultura – ove per cultura intendiamo un sistema ampio che va dalle relazioni parentali alle correnti di pensiero – avrebbe influito sul cervello umano, facendo sviluppare alcune aree negli uomini e altre nelle donne[1].

Potremmo evidenziare almeno due conseguenze: in primo luogo occorre liberare la donna da quella «riduzione androcentrica» alla quale è stata sottoposta lungo la storia – a partire, per esempio, dalla definizione aristotelica di «maschio mutilato» – ed elaborare una vera e propria simbolica femminile in grado di sostenere le donne nella loro emancipazione, rispettando la loro libertà e la loro unicità. In seconda istanza – anche se forse quest’affermazione potrebbe sembrare antitetica rispetto a quanto scritto finora – proprio il modo in cui il cervello femminile si è sviluppato grazie alle mansioni affidate alle donne nel tempo, apre alla necessità dell’ascolto di una “voce differente”, di un pensiero materno, che lungi dall’essere un mero surrogato del pensiero maschile, riesca a portare nella riflessione etica valori oggi fondamentali per l’elaborazione dei giudizi morali: la cura, le emozioni, i sentimenti, le attenzioni, ecc.

In merito al tema delle convivenze, l’ascolto del mondo femminile ci offre dettagli per nulla irrilevanti. Secondo l’ultimo rapporto Eurofound – una fondazione europea pubblica che si occupa di politiche sociali – il numero delle coppie che approdano alla scelta della convivenza crescerebbe di pari passo con il livello di istruzione delle donne. Sarebbe interessante approfondire questa correlazione – cosa che non emerge nell’indagine – per comprendere se i motivi di questa scelta sono legati all’incompatibilità tra carriera e scelta matrimoniale o alla disaffezione socio-culturale nei confronti di tale istituzione.

Pertanto, le domande sulla liceità delle convivenze non dovrebbero più concentrarsi soltanto sulla conformità di tali relazioni alla retta ragione o al rispetto di un modello precostituito, ma piuttosto cercare di verificare, nella situazione concreta, l’effettiva compromissione affettiva e sentimentale degli individui nella vita di coppia; l’attenzione e il mutuo aiuto; la fedeltà; le possibilità concrete, per la donna, di portare a termine i suoi progetti di vita; l’impegno a progredire gradualmente verso la definitività coniugale.

 
Nelle “stanze del potere”

Se non esistono differenze cerebrali così marcate da impedire l’accesso delle donne a determinate cariche, ruoli e professioni e se le differenze che la cultura ha impresso sulla biologia ci fanno riscoprire una “voce differente” di cui tener conto per formulare un nuovo modello etico, si fa sempre più urgente, allora, abbandonare quelle forme di oppressione ed esclusione della donna che ancora oggi sussistono in molte società e, per alcuni aspetti, anche nella chiesa cattolica.

Le svolte impresse dal pontificato di Francesco in questi dieci anni sono state notevoli: dall’aumento delle dipendenti donne in Vaticano alla loro valorizzazione in alcuni incarichi di spicco nella curia.

Nel novembre 2022, in un’intervista concessa alla rivista dei gesuiti negli USA, America, il papa è ritornato sull’argomento ribadendo quanto affermato più volte in questi anni. Sulla scorta del principio mariano/principio petrino di matrice balthasariana, Francesco ha affermato:

«La chiesa è donna. La chiesa è una sposa. Noi non abbiamo sviluppato una teologia della donna che rifletta questo. La dimensione ministeriale, possiamo dire, è quella della chiesa petrina. […] Il principio petrino è quello legato al ministero. Ma c’è un altro principio, ancora più importante, del quale non parliamo, che è il principio mariano, che è il principio di femminilità della chiesa, della donna all’interno della chiesa, dove la donna vede se stessa riflessa nello specchio, in quanto donna e sposa».

Nella chiesa, conclude il pontefice, non ci sarebbe spazio per l’ordinazione femminile, ma una donna che non entra nella vita ministeriale non è deprivata.

Rimandando a un’eccellente riflessione di Marinella Perroni sul principio mariano/petrino ed evitando di entrare nel merito del tema dell’ordinazione delle donne, in questa sede ci limitiamo a rilevare quanto, ancora oggi, la struttura sociale e di governo della chiesa risenta di un clericalismo maschilista. In un tempo in cui si riflette sulla sinodalità, riteniamo che proprio lo sviluppo di questa forma di prassi e di governo della chiesa possa spingere a dar voce e responsabilità alle donne. Come afferma Simona Segoloni

«In un organismo consultivo, chi decide è tenuto all’ascolto obbediente di ciò che lo Spirito discerne in quella porzione di Chiesa radunata; e se in questo consiglio assieme agli uomini siedono le donne, allora anche da esse dipende ciò che si deciderà. Si potrebbe inoltre pensare a ruoli di leadership per le donne, posizioni di responsabilità, anche se non legate a un ministero ordinato».

Se questo è vero per il governo della comunità ecclesiale, lo è ancora di più per la riflessione teologico-morale. Se, infatti, essa continua a essere elaborata solo (o in gran parte) da uomini celibi, rischierà di non cogliere le immense sfumature della sessualità umana, delle relazioni interpersonali, del rapporto col creato. Riconoscere e valorizzare il ruolo della donna nell’etica teologica, favorendo le condizioni perché le donne possano insegnare e dedicarsi alla teologia, può davvero aprire nuove strade per «per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale» (GS, 16).

[1] La natura del post non consente un giusto approfondimento di queste affermazioni. Se il lettore fosse interessato si rimanda a: V. Burr, Psicologia delle differenze di genere, Il Mulino, Bologna 2000; L. Rogers, Sesso e cervello, Einaudi, Torino 2000; C. Vidal, D. Benoit-Browaeys, Il sesso del cervello, Dedalo, Bari 2006.

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