Cura e profezia. Percorsi possibili per ascoltare e comprendere chi vuol porre fine alla sua esistenza

Dopo il post principale elaborato dalla professoressa Anelli, la prima reazione è affidata a Roberto Massaro, professore associato di teologia morale e bioetica presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari e invitato presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Responsabile, insieme a Giorgio Nacci e Gianpaolo Lacerenza, del blog promundivita.it, è autore di diverse pubblicazioni. Sul tema in analisi ricordiamo: L’etica della cura. Un terreno comune per un’etica pubblica condivisa, EdAccAlf-Lup, Città del Vaticano 2016; «Con quale diritto mi salvi?», in Testimoni 1(2019), 12-14; «Siamo nati per soffrire? Piccoli passi per una ricomprensione del mistero del dolore umano», in Studia Moralia 2(2022), 325-343.
«Ho sempre sentito da tanti anni il vuoto della mia vita, il vuoto del mio essere. Mi guardo intorno e non trovo nessun senso. Nessun senso nel mangiare, nel bere, nel lavorare, nel fare nuove amicizie […]. La vita è per me un macigno enorme che mi porto sulle spalle ogni volta che mi alzo la mattina». 

Sono le parole di Angelo, che hanno suscitato la domanda posta al nostro blog dal seminarista Antonello Bruno.

La risposta della professoressa Anelli ci ha invitati a “indagare le motivazioni” e ad “ascoltare per comprendere”, affinché il nostro giudizio etico non sia asettico, ma nutrito da una profonda empatia: «Ascoltare anche il silenzio dell’altro e accoglierlo con quella piena carità tesa alla comprensione delle sue difficoltà e delle sue paure» è il compito primario della comunità cristiana.

In questa seconda risposta, vorremmo inserirci in questo solco e proporre un percorso in tre step non per giudicare il vissuto di Angelo, ma piuttosto per andare avanti in quei tentativi di indagine e di ascolto che la professoressa Anelli ha indicato.

In cerca di un dialogo

In una recente Nota a margine di un caso italiano di suicidio assistito, la Pontificia Accademia per la Vita (PAV) così si esprimeva: «Non possiamo in nessun modo minimizzare la gravità di quanto vissuto da “Mario” [nome di fantasia riportato nella nota]. Rimane tuttavia la domanda se la risposta più adeguata davanti a una simile provocazione sia di incoraggiare a togliersi la vita».

Una delle questioni più spiacevoli, nel dibattito italiano sui cosiddetti “diritti civili”, è la sterile e dannosa contrapposizione che vede spesso “laici” e “cattolici” fronteggiarsi con toni molto accesi su temi di grande sensibilità. La Nota della PAV sembra indicare, al contrario, un percorso più costruttivo, ponendo delle legittime domande per favorire un dialogo autentico e proficuo su un argomento così delicato. La prima di queste è se il vero modo di prendersi cura dell’umanità vulnerabile e sofferente sia quello di aiutarla a morire.

La storia di Angelo tocca un’esperienza di sofferenza particolare: non si tratta, infatti, di un malato terminale, ma di un uomo profondamente provato da un male interiore a tal punto da ritenere inutile continuare a vivere. Sappiamo che, in alcuni paesi stranieri, l’accesso alla morte volontaria assistita (MAV) è consentito anche in casi di depressione grave. Senza voler minimizzare il dolore vissuto dal protagonista di questa storia – o, ancor peggio, ritenere il male psichico inferiore rispetto a quello fisico –, ci chiediamo se anche un profondo stato di prostrazione interiore possa essere condizione di possibilità per porre fine alla propria vita. Forse, dietro questa concezione, sono visibili i segni di un paradigma che esalta a tal punto l’autonomia del paziente da mettere in secondo piano l’obbligo e l’impegno della medicina nella ricerca della guarigione e del bene autentico del paziente?

La strada dell’accompagnamento – che la PAV indica come via maestra – ci sembra abbracci un paradigma meno efficientista e più improntato sulla cura. Riteniamo, tuttavia, che affinché un simile cambiamento di paradigma entri nella mentalità comune, sia necessario ripensare la pratica medica, investendo maggiormente su una slow medicine, una medicina lenta che, senza abdicare alle evidenze scientifiche, riesca a valorizzare quegli illness script attraverso i quali il malato racconta non solo la sua malattia, ma anche ciò che l’ha preceduta e ciò che la seguirà per far sentire ogni persona oggetto di attenzione, cura ed empatia.

La strada della formazione…

È un dato di fatto, però, che queste convinzioni siano diventate sempre più “di nicchia” e che spesso le parole della gerarchia ecclesiastica o degli stessi teologi stentano a far breccia nel cuore dei credenti, portando a un progressivo distacco dei fedeli dagli insegnamenti morali della Chiesa, soprattutto in tema di fine vita. Tutto ciò non significa venir meno agli insegnamenti della tradizione morale cristiana e del magistero, né, tantomeno “annacquare” tale messaggio per essere più “popolari” o vicini alla gente.

Le parole di papa Francesco alla Federazione Nazionale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri ribadiscono l’importanza del valore della vita umana nella teologia morale cattolica: «Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia».

Resta, tuttavia, una parte consistente dei cittadini italiani che non si riconosce per nulla o in parte in queste parole e, pur condividendo personalmente la posizione del Magistero, non ci sembra del tutto sbagliato che lo Stato laico intervenga affinché siano rispettate le convinzioni morali di tutti, ponendo opportune tutele legislative per difendere i più vulnerabili.

Alla comunità cristiana resta, allora, il compito primario di incrementare la formazione morale di coloro che si riconoscono nella proposta evangelica, divulgando una cultura di amore alla vita dal suo sorgere al suo tramonto naturale, valorizzando la prossimità concreta con la carne sofferente di tanti uomini e donne che hanno difficoltà a dare senso al dolore e alla malattia, necessitando un accompagnamento umano, cristiano e professionale all’altezza della situazione.

…e della testimonianza

In secondo luogo, un gesto davvero profetico della Chiesa potrebbe essere quello di investire economicamente nella ricerca sulle cure palliative, nella pratica della terapia del dolore – fondando e mantenendo strutture di Hospices cristianamente ispirate –, ma anche in consultori in grado di accogliere, ascoltare e accompagnare con adeguati percorsi psicoterapeutici le tante persone che, nel nostro tempo, sono sempre più afflitte dal male oscuro della depressione. Infatti, le richieste di eutanasia e suicidio spesso giungono per le condizioni precarie in cui versa il malato terminale o per la solitudine e la scarsità di risorse economiche di chi è profondamente turbato nella propria psiche. Un’adeguata presenza nel sociale, l’impegno e la diffusione di strutture sanitarie adeguate ad umanizzare l’ultimo tratto dell’esistenza o ad accogliere e ascoltare chi soffre nell’intimo costituiscono la più forte prevenzione all’insorgere di queste tragiche richieste e manifestano il modo concreto con cui i discepoli di Cristo si fanno promotori e testimoni della vita, non con sterili contrapposizioni polemiche, ma «con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18).

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