Con “sguardo di donna” …

Roberto Massaro

È professore associato di Teologia morale presso la Facoltà Teologica Pugliese. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Sui sentieri di Amoris laetitia. Svolte, traguardi e prospettive, Cittadella editrice, Assisi 2022 (a cura di); Si può vivere senza eros? La dimensione erotica dell’agire cristiano, Messaggero editore, Padova 2021; L’etica della cura. Un terreno comune per un’etica pubblica condivisa, EdAcAlf-LUP, Roma 2016. Dal 2023 è direttore della rivista Apulia Theologica. Insieme a Giorgio Nacci e Gianpaolo Lacerenza è curatore della pagina Promundivita.it.

Uno dei commenti privati, ricevuti dalla redazione di questo blog dopo la pubblicazione del post del prof. Maurizio Faggioni, si chiedeva perché, a occuparsi di queste tematiche, fossero tre uomini celibi. Se, da un lato, è inevitabile dar ragione al lettore, che rileva il problema di un’etica cattolica ancora troppo stretta nelle mani di teologi maschi, dall’altro è anche vero che il tema della maternità surrogata ha così tante implicazioni da non poter essere circoscritto in una semplice “problematica di genere”. Il contributo di Faggioni, infatti, in replica alla domanda dello studente Lorenzo Montenegro, ha messo in luce questioni trasversali, il cui peso specifico grava sull’intera società.

In questa risposta, tuttavia, pur confermandoci in piena sintonia con quanto espresso nel post principale, vorremmo osare una lettura “in chiave femminile” della questione, al fine di porre ulteriori piste di riflessione, che stimolino il dibattito etico a non rimanere ancorato su posizioni rigide e contrapposte, ma a valutare la complessità del reale e le numerose cause e conseguenze del fenomeno della maternità surrogata.

Ci limitiamo, in questo contributo, a evidenziarne solo due, ben consapevoli che la difficoltà del tema meriterebbe uno spazio e un approfondimento maggiori.

Una nuova forma di ingiustizia sociale per le donne?

Quanti si pongono in una prospettiva critica sulla gestazione per altri (gpa), lo fanno criticando soprattutto la sua forma commerciale, ossia il contratto oneroso che si verrebbe a stipulare tra la coppia richiedente – omo o eterosessuale che sia – e la gestante. In tale pratica, infatti, si intravede un modo per sfruttare il potenziale procreativo della donna e un ulteriore passo in avanti in quello sfruttamento del corpo femminile per la riproduzione, portato avanti, per secoli, da una lettura patriarcale della sessualità e della generazione.

Un’attenta lettura del fenomeno, a nostro avviso, implica un giudizio etico che tenga in debito conto i fattori sociali ed economici che possono influire sulla madre surrogata al momento della concessione del proprio corpo per fini riproduttivi di terzi.

Come giustamente, infatti, afferma Luisa Muraro, «molti motivi e circostanze della riproduzione umana per interposta persona si vedono a occhio nudo. C’è il desiderio di generare, frustrato dalla sterilità, la potenza dei soldi su chi ne ha pochi, la potenza dei soldi in chi ne ha molti, la presenza di un mercato globale, le facilitazioni offerte dalle tecnologie riproduttive»[1].

Lì dove la maternità surrogata è legale – pensiamo, a mo’ di esempio, al Canada e ad alcuni Stati USA – la donna mette a disposizione il suo corpo rinunciando alle sue scelte sulla gravidanza – a cominciare dall’aborto – e, solitamente, concede ai richiedenti il diritto di prendere tutte le decisioni mediche. In India, invece, dove la maternità surrogata non è normata da leggi dello Stato, sono molte le donne, anche giovanissime, che mettono a disposizione il loro corpo per ottenere un beneficio economico, allo scopo di fronteggiare forme estreme di povertà.

Ci chiediamo: è vera autodeterminazione quella di una donna che mette a disposizione se stessa per altri a scopo di lucro?

Le risposte delle filosofe e delle teologhe non sono unanimi: il mondo del femminismo liberale ritiene accettabile la gpa – anche commerciale –, a patto che essa non rechi danno alla donna, e ritiene che lo Stato debba attivarsi per elaborare forme contrattuali che regolino la maternità sostitutiva; alcune esponenti del femminismo radicale, invece, richiedono di dichiarare illecita e illegale la surroga a pagamento, per evitare che le donne povere vengano sfruttate; nella prospettiva del femminismo culturale, infine, la maternità surrogata, anche commerciale, sarebbe una forma di aiuto, non di lucro.

Pur comprendendo risorse e limiti di tali approcci, ci sembra che dietro la forma contrattuale della maternità sostitutiva si possa celare una nuova forma di ingiustizia sociale a carico della donna. Pur evocando il diritto all’autodeterminazione, molti sostenitori della gpa onerosa dimenticano che non sempre i contratti tutelano la parte debole – in tal caso la gestante – e che, se le due parti non sono egualmente razionali o potenti – immaginiamo un divario culturale ed economico tra i contraenti o una variabile emotiva che potrebbe coinvolgere la madre sostitutiva al momento della nascita – il modello del contratto non regge. È bene ricordare che una gravidanza è un’esperienza che coinvolge totalmente la donna, non solo a livello fisico, ma anche piscologico, ormonale e – secondo alcuni recenti studi – anche neuronale.

Si profilerebbe, pertanto, una nuova forma di schiavitù delle donne che, paradossalmente, ci riporterebbe a riaffermare una mercificazione dell’identità femminile e un depotenziamento della sua autodeterminazione soggettiva.

Dentro un cambiamento di mentalità

Quando l’attenzione si sposta dalla gpa commerciale alla gpa solidale le sensibilità e i giudizi etici sembrano mutare. Rosemary Tong, per esempio, propone di assimilare la gestazione sostitutiva altruistica a una forma di adozione e, pertanto, prospetta di regolarla, giuridicamente, allo stesso modo. Ci si potrebbe, altresì,  chiedere – lo facciamo come possibile pista di riflessione per alimentare il dibattito – se la forma altruistica di maternità surrogata possa essere, in qualche modo, assimilata alle forme di «trapianto samaritano» – consentite anche dalla legge italiana – che prevedono la possibilità della donazione di rene da vivente, a titolo totalmente gratuito, in favore di sconosciuti.

Tali tentativi di giustificazione – sostenuti anche in ambito femminista – sono, a nostro avviso, rivelatori anzitutto di un profondo cambiamento nella concezione della maternità.

Già Luce Irigaray, nel 1989, aveva affermato che, con l’emancipazione femminile, le donne avevano imparato a mettere al mondo «qualcosa di diverso dai figli, generiamo qualcosa che non è il bambino: amore, desiderio, linguaggio, arte, società, politica, religione, ecc.»[2].

Se il modello classico patriarcale aveva affidato alla donna il ruolo di madre, angelo del focolare, generatrice di figli per assicurare al maschio discendenza – intesa, spesso, come forza economica e forza lavoro – i cambiamenti culturali del secolo scorso hanno gettato nuova luce sulla maternità, traducendola da obbligo per soddisfare il desiderio del maschio a possibilità di realizzare un progetto di vita tutto femminile.

È vero – come afferma Faggioni – che «la gestazione non è un fatto biologico soltanto, ma una singolare relazione di persone che si attua attraverso le dinamiche della biologia, senza esaurirsi in esse. La madre non è un’incubatrice, ma una persona che ne abbraccia un’altra e che, nel figlio, abbraccia se stessa nel “noi” coniugale».

Ci sembra, tuttavia, altrettanto vero che le forme in cui la maternità viene oggi a realizzarsi non siano così univoche: la maternità non si racchiude più nei confini della biologia, ma si apre a nuovi tipi di relazione che vanno dall’adozione al fenomeno delle famiglie allargate, passando per quelle forme nuove di fecondità di cui parlava Irigaray.

Può una forma di maternità sostitutiva (di tipo non oneroso) essere inserita nell’alveo di queste nuove forme di maternità, non più legate ai soli meccanismi biologici? Può, davvero, costituire una forma di solidarietà e di cura, di attenzione e di empatia, tratti tipici di quel “femminile” junghiano, così simile alla misericordia evangelica? Ha ancora senso parlare di maternità “surrogata” o “sostitutiva” – quasi in tono dispregiativo – o ci troviamo semplicemente dinanzi a forme differenti, ma non meno importanti, di essere madre?

«Si dovrebbe ricordare – afferma Antonio Fidalgo – che l’essere umano non è un essere concluso, definitivamente determinato, è sempre un progetto aperto, è un dono ma, nello stesso tempo, è una costruzione costante. Dunque, bisognerebbe presupporre che, fino a quando i processi di umanizzazione personale e sociale rispettano la dignità delle persone e ricercano le strutture e i sistemi sociali più adeguati, sia necessario lasciare spazio alle persone e alle famiglie di realizzarsi pienamente, senza imporre nessun “pensiero unico”, di qualsiasi colore esso sia».

Sono solo piccole questioni, per ampliare la discussione, evitare polarizzazioni, arricchirci nel confronto e aprirci all’ascolto di quanto, oggi, il nostro tempo ha da insegnare anche alla riflessione etica teologica. È vero: non tutto ciò che è desiderabile o socialmente approvato può essere considerato eticamente lecito. Tuttavia, in una società plurale, un vero esercizio della libertà personale e sociale richiede l’avvio di processi di discernimento “dinamico”, che non pretende di possedere verità assolute e non ha paura di cadere nella trappola dei “piani inclinati”, ma resta «sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno» (AL, 303).

 

[1] L. Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, La Scuola, Milano 2016, 11.

[2] L. Irigaray, Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1989, 28-29.

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