La notte scorsa, dedicata ai desideri e alla ricerca di un segno di luce che cade sulla terra quasi per benedirla, Michela Murgia ci ha lasciato.
La sua morte l’aveva annunciata lei stessa con il sorriso di chi sa tutto ma non si fa sorprendere dagli eventi senza riuscire a farne tesoro, eppure lascia dietro di sé l’inevitabile tristezza.
Socia del CTI honoris causa, Michela avrebbe dovuto essere con noi al Seminario di quest’anno, nel quale abbiamo voluto soffermarci sulla forza politica delle parole teologiche, sul loro impatto e sulla loro responsabilità nelle vicende del mondo che abitiamo insieme. Lei avrebbe discusso con noi del suo penultimo libro God save the Queer in un dialogo con Marinella Perroni, amica di sempre e autrice della postfazione al testo. Le sue condizioni di salute non le hanno permesso di farlo anche se, fino all’ultimo, lei ci ha sperato. In quelle pagine Michela parte dalla domanda che più spesso si era sentita rivolgere: come si può essere contemporaneamente cattolica e femminista? Si può, rispondeva, ma le contraddizioni rimangono e comunque, «non è detto che risolverle sia la cosa migliore» (God save the Queer, p. 5).
In quella terra di mezzo che sta tra la rassegnazione al disordine e la pretesa di un ordine giusto, Michela non ci è finita con l’intento di trovare delle mediazioni di pace né con il gusto della provocazione, ma nella consapevolezza che di lì
«passa con fatica il vivere quotidiano di milioni di persone, che soffrono l’emarginazione nella Chiesa cui sentono di appartenere e che vorrebbero continuare a credere in Dio senza percepirsi come un’anomalia dentro la propria comunità di fede» (God save the Queer, p. 7).
Da quella posizione liminale lei voleva pensare, capire, dialogare su quali aspetti della vita sono effettivamente inconciliabili con la fede cristiana e con l’appartenenza a una comunità ecclesiale cattolica. Sentiva che questo era il suo modo per onorare la prima lettera di Pietro, dove un ex-pescatore di Galilea chiede di rendere ragione della speranza che è in noi (1Pt 3,15). Questa speranza oggi chiede un immaginario di Dio ospitale verso le differenze, queer cioè liberato dalla logica binaria dell’aut-aut e restituito a quella inclusiva dell’et-et centrata sulla relazione e non sui singoli aspetti del sistema. Il Dio queer di Murgia è infatti il Dio dei legami, dell’essere-per, il Dio che diventa irrazionale se lo si pensa secondo la somma (perché 1+1+1 non fa mai 1) ma che diventa spazio accogliente se ci si concentra sulla relazionalità: in questo caso è il Dio che resta uno (1x1x1 =1) ma che lascia intravedere l’importanza del legame con altro da sé. Il Dio che può essere uno e trino, allora, è anche il Dio che può essere misericordioso e giusto, onnipotente e straziato sulla croce, morto e risorto.
Michela Murgia ci lascia in eredità moltissimo, ma soprattutto il compito di parole teologiche radicate nel mondo e ispirate dall’essenziale: la giustizia dei legami. Credere in un Dio uno e trino, segnato dalla storia di un uomo innamorato del mondo fino a morire sulla croce e dalla forza di uno Spirito che non smette di vivificare i luoghi di morte, significa avvertire che i legami tra noi, con le altre specie viventi e con tutto l’universo sono anche una questione di fede. Dobbiamo dunque fare attenzione alle parole con cui li rivestiamo.Nel suo Noi siamo tempesta, Michela ci invitava a riflettere su come le storie che raccontiamo perdano la forza delle relazioni. Troppe favole parlano di eroi solitari, con un nemico di fronte e una conquista da fare attraverso una battaglia, con un finale di vittoria del protagonista che non si preoccupa quasi mai di salvare chi ha perso. Questa retorica bellica non può raccontare veramente la vita, e Michela Murgia ne ha preso le distanze anche quando si è trattato della sua stessa esperienza di malattia. La cura a cui si stava affidando non poteva essere una battaglia contro il nemico perché quel nemico era in lei, era lei; si trattava piuttosto di puntare su parole che esprimevano il tentativo di risvegliare le proprie energie di trasformazione, di riconfigurare il proprio equilibrio (cfr. la sua intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della sera). Nel suo ultimo libro Tre ciotole, parlando in terza persona Michela ci racconta con chiarezza:
«Quello che doveva essere un avversario da distruggere le era appena stato dipinto come un complice della sua complessità, una parte disorientata del suo corpo sofisticato, un cortocircuito del sistema in evoluzione, niente di più di un compagno che sbagliava. Non era abituata a perdere a parole. Qualunque battaglia avesse immaginato di fare alla malattia, ora suonava come un progetto autolesionista. Di far guerra a sé stessa non aveva voglia né forze» (Tre ciotole: Rituali per un anno di crisi, p.10).
Per Michela Murgia c’era dunque un altro modo di raccontare la vita, di riconoscerla sotto la benedizione divina, di accompagnarla verso la luce: valorizzare, riparare e salvare le relazioni. L’aveva colpita molto l’opera dell’artista Maria Lai, Legarsi alla montagna: l’intera comunità di Ulassai aveva accettato di far passare per le proprie porte, finestre e terrazze un nastro azzurro lungo 27 Km che arrivava fino al Monte Gedili. Questo nastro diventa il segno di ciò che ci tiene insieme, aprendo la possibilità di liberarsi dalle ferite della prossimità e forse anche di una teologia ospitale, dato che «la salvezza non serve a niente se ti salvi solo tu» (Noi siamo tempesta, p. 59).
Nel nome di questi fili che ci attraversano e ci segnano in profondità e che ci ostiniamo a fingere di non vedere:
Ciao Michela, tessitrice instancabile del ricamo della nostra comunità.
Non sarà un ricamo perfetto, scrivi tu,
«ma è il nostro ricamo, e anche se noi non lo vediamo, sarà forse la montagna, che ci vede dall’alto, a capire quanto è meraviglioso il nostro disegno comune»
(Noi siamo tempesta, p. 60).
Fonte: www.teologhe.org
Lucia Vantini ha conseguito il dottorato in filosofia presso l’Università di Verona e il dottorato in Teologia presso la Facoltà Teologica del Triveneto (Padova) e si occupa di filosofia della differenza e di teologia di genere. Tiene corsi di filosofia e di teologia prevalentemente allo Studio Teologico San Zeno e all’Istituto di Scienze Religiose San Pietro Martire di Verona. Da giugno 2021 è presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane. Tra le sue ultime pubblicazioni La fenomenologia nella settima stanza, QuiEdit 2019 e Il segreto dell’alba, Nerbini 2020.
Lascia un commento