Maternità surrogata: tra diritto al figlio e dignità della donna

Con il mese di giugno inauguriamo il nostro ultimo tema di approfondimento teologico-morale prima della pausa estiva. Parliamo di surrogacy, ovvero della maternità surrogata, oggi al centro del dibattito pubblico anche in Italia.

Ne parliamo con il prof. Maurizio Pietro Faggioni, ordinario di teologia morale e di bioetica presso l’Accademia Alfonsiana, il quale risponde alla domanda dello studente Lorenzo Montenegro. Al post del prof. Faggioni, nelle prossime settimane, pubblicheremo il respondeo del prof. Roberto  Massaro e quello del prof. Giuseppe Zeppegno.

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Lorenzo Montenegro è uno studente del V anno di teologia presso l’ITRA di Molfetta ed è un giovane seminarista della diocesi di Castellaneta.

La pratica della maternità surrogata, conosciuta anche come gestazione per altri o utero in affitto, è una tecnica che da diversi anni a questa parte sta prendendo piede, quasi come una moda. Differenti sono le motivazioni che portano uomini e donne ad avvalersi di questa scelta e tanto più le modalità con cui attuare tale processo, soprattutto nel caso di coppie omosessuali.
Generare un figlio come atto di donazione di un uomo e di una donna, da desiderio si è tramutato in diritto da esercitare e ottenere a tutti i costi. Il nascituro da essere soggetto integrante della coppia diviene l’oggetto materiale da produrre, svilendone, in qualche maniera, la dignità umana. Le possibilità che la tecnica offre al mondo sono interpretate tutte come moralmente lecite senza considerare che il progresso scientifico non deve sostituire la natura ma supportarla. D’altra parte, una simile pratica potrebbe aiutare a risolvere situazioni severe di sterilità della coppia.

Quali considerazioni possono essere espresse in merito all’esercizio di un “diritto al figlio”?

Maurizio Pietro Faggioni, frate minore, docente ordinario di teologia morale e bioetica presso l’Accademia Alfonsiana in Roma. E’ membro della Pontificia Accademia per la vita, autore di numerosissimi saggi e articoli e ha fatto parte di importanti Comitati etici. Sull’argomento ha scritto «Maternità surrogata» in E. Sgreccia, A. Tarantino (eds.), Enciclopedia di Bioetica e scienza giurdica, vol. VIII, ESI, Napoli-Roma 2015, 251-266.

Cos’è la maternità surrogata?

Le tecniche di fecondazione artificiale extracorporea, nelle quali cioè, un embrione viene concepito in vitro, fuori del corpo di una donna, possono condurre a pratiche veramente conturbanti, come la maternità surrogata.  Si tratta di un accordo per surrogare, cioè, sostituire il ruolo di gestante di una donna. In una coppia eterosessuale può accadere che la donna abbia ovociti e possa concepire, naturalmente o artificialmente, con il seme del marito o di un donatore, un embrione, ma, per qualche ragione, il suo utero non possa portare a termine la gravidanza. Potrebbe essere una donna con una malposizione dell’utero o una donna che è nata con una agenesia uterina o che abbia subito una isterectomia o che, per esempio, sia affetta da una malattia che non le permetterebbe di reggere lo stress fisico di una gravidanza. Per tanti motivi diversi, quindi, l’embrione così concepito viene introdotto nell’utero di una madre surrogatoria o sostitutiva.

Anche una coppia di maschi omosessuali può ricorrere a una maternità surrogata: uno dei due concepisce un embrione con un ovocita di donatrice e poi la creatura così concepita viene introdotta nell’utero della madre surrogatoria per la gravidanza fino al parto. Il genitore naturale – “naturale” in senso biologico e giuridico – è colui che ha impegnato il suo seme, mentre l’altro o può riconoscere il figlio o può diventarne genitore adottivo, a seconda delle diverse legislazioni sulle unioni omosessuali. In alcuni casi l’ovocita fecondato è quello della stessa madre sostitutiva, allora questa non è solo madre gestazionale, bensì madre biologica a tutti gli effetti. Questa situazione, però, non è la più comune.

Può capitare – e può sembrare strano – anche ad una coppia di lesbiche, come fu il caso di una coppia di Bolzano, sposatasi in Danimarca nel 2014. Una aveva avuto gravi danni alle tube in seguito a tentativi di fecondazione artificiale, mentre l’altra soffriva di una grave aritmia che sconsigliava assolutamente una gravidanza. Chiesero all’ASL di Bolzano di concepire un embrione con gli ovociti della partner cardiopatica e seme di donatore e di far portare avanti la gestazione dall’altra, quella con lesioni delle tube, ma con utero integro. La prima sarebbe stata la madre genetica e l’altra la madre gestazionale, così che il bimbo avrebbe avuto due madri naturali, anche se diversamente madri (per approfondire, puoi leggere qui).

Esiste un diritto al figlio?

La maternità surrogata deve essere compresa in quella linea di pensiero che possiamo definire “il figlio in ogni modo” e “ad ogni costo”. Giustamente Lorenzo, con efficacia, sottolinea alcuni slittamenti semantici che sono veri e propri slittamenti antropologici: dal desiderio del figlio al diritto al figlio e, quindi, dal servizio alla vita al potere sulla vita, dal figlio come persona che sorge in una comunione di persone a oggetto frutto di un processo riproduttivo. Credo che ci sia del vero in questo orizzonte inquietante, così come vedo il rischio che questo contesto tecnologico possa imporre al mondo delle emozioni umane la freddezza della efficienza produttiva. Mi sentirei, però, profondamente ingiusto se non entrassi in empatia con il bisogno di maternità e di paternità che alberga nel cuore umano e con l’aperura al dono della vita che è intrinseca al vero amore coniugale e che, per imitazione culturale o per nostalgia ancestrale, è percepita anche da molte coppie omosessuali.

Come dimenticare, d’altra parte, quanto l’istruzione Donum vitae del 1987 affermava sulla maternità surrogata come offesa alla dignità del figlio e al suo diritto ad essere concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato dal matrimonio e nel matrimonio, cioè nel contesto dell’amore coniugale? La maternità surrogata rappresenta una delle derive dell’antropologia contemporanea che è il fluidificarsi e frammentarsi delle identità. Nella generazione umana, maternità e paternità umana sono definite da una molteplicità di elementi fra loro intersecantisi e interagenti: fisici, affettivi, culturali, sociali. Questa multidimensionalità, riflesso dell’unitas multiplex della persona, si compone armoniosamente nella persona dei genitori. Nella maternità surrogata, invece, si oscura e si frammenta la figura della madre, dispersa in ruoli e in soggetti diversi: la madre genetica, la madre gestazionale, la madre psicologica, la madre legale.  Un aspetto inquietante è la negazione del vissuto della gestazione. Madre è colei che accoglie e custodisce una vita e questo può realizzarsi sia attraverso la generazione sia attraverso l’adozione. La madre surrogatoria, invece, si impegna a consegnare un figlio ai committenti o al committente – anche singoli possono ricorrere alla maternità sostitutiva – annullando intenzionalmente il profondo legame che usualmente si instaura tra una donna e il bimbo portato in seno e questo – sia chiaro – non per le circostanze drammatiche che portano talora una donna a separarsi dal suo bambino, ma per un progetto pacatamente pianificato.

Surrogacy e dignità della donna

La maternità surrogata mette a rischio il corpo della donna nella sua dignità e nel suo significato profondamente personale. Senza dubbio la maternità surrogata trasforma il corpo della donna in una incubatrice vivente, in un oggetto che si può prendere in affitto e che potrebbe essere rimpiazzata, in futuro, da una vera superincubatrice. L’espressione cara alla stampa italiana è, appunto, quella crudissima di “utero in affitto”. Non è, però, sempre così. A volte la maternità surrogata è retribuita e in questo caso davvero l’utero è in affitto, ma altre volte la maternità surrogata è altruistica, vale a dire gratuita. In questo secondo caso non mancano coloro che, proprio in ambito femminista, esaltano l’altruismo di una donna che aiuta un’altra donna ad essere madre. La donna altruista che mette a disposizione il suo corpo per la gioia di un’altra donna può essere un’amica, una sorella e persino la madre – se possibile – della donna la cui gestazione deve essere sostituita, in un groviglio relazionale arduo da districare. A ben guardare, anche in questo secondo caso, quello della donna altruista, sebbene in modo meno esplicito, il corpo di una donna viene oggettualizzato, usato come contenitore per altri. La gestazione non è un fatto biologico soltanto, ma una singolare relazione di persone che si attua attraverso le dinamiche della biologia, senza esaurirsi in esse. La madre non un’incubatrice, ma una persona che ne abbraccia un’altra e che, nel figlio, abbraccia se stessa nel “noi” coniugale.

Non credo che la formula sovente ripetuta che la tecnica deve aiutare la natura e non sostituirla, canonizzata nel magistero di Pio XII, se intesa nell’orizzonte antico, possa ancora render conto dell’inedito intreccio fra uomo e tecnica al quale stiamo assistendo. Non è questione di rispettare come intangibili le strutture corporee e sociali così come le abbiamo conosciute finora, ma di chiederci se i valori fino ad ora incarnati in quelle strutture corporee e sociali possono esprimersi in modalità assolutamente nuove. Sono i valori umani che non possono essere sostituiti, pena la disumanizzazione.

E tutto questo – ci chiediamo – è ancora amore coniugale, genitorialità, filiazione, generazione, famiglia?

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