Lampedusa, porta d’Europa

Angelo Minacapilli, frate minore cappuccino della Provincia di Sicilia, è studente di teologia presso l’Istituto Teologico Santa Fara di Bari. Nell’agosto 2021 e ottobre 2022 ha prestato servizio ai migranti a Lampedusa. Di questa esperienza ci racconta in questo post.

Le domande “lasciate” da Papa Francesco a tutti noi sull’accoglienza agli ultimi, che il prof. D’Ambrosio ha messo in rilievo, trovano uno spazio di concretezza tra i cristiani (e non) che lavorano a Lampedusa.

È la cura e salvaguardia della dignità della persona l’elemento che spinge, e allo stesso tempo unisce, l’azione di coloro che ogni giorno spendono il loro tempo nell’accoglienza dei migranti. Riconoscere la dignità dell’altro permette di costruire un contesto luminoso che non lascia spazio a ombre in cui rigurgiti razzisti diventano pensieri legittimi, finanche legalizzati. Per il cristiano riconoscere la dignità altrui significa anche riconoscerne la sua origine sacra, ciò permette di dare alle nostre relazioni il gusto del Vangelo.


I Frati Cappuccini accolti tra chi accoglie migranti e rifugiati

Nello Stretto di Sicilia, in provincia di Agrigento, lungo la rotta migratoria più pericolosa al mondo, si trova più vicina all’Africa che all’Italia l’isola di Lampedusa. Lì, nell’agosto 2021 e ottobre 2022, insieme al mio confratello Giuseppe, come me appartenente alla provincia dei Cappuccini di Sicilia, ho trascorso giorni intensi di emozioni, fatica e incontri.

Atterrato la prima volta sull’isola, ho avuto l’impressione che fosse un luogo ordinario, un tipico paese caldo dell’agrigentino che vive la sua estate tra sole, mare e classiche passeggiate sul corso. E in effetti Lampedusa è anche questo.

Ma andiamo per ordine.

Grazie alla disponibilità e ospitalità della Parrocchia di San Gerlando, siamo riusciti a entrare in punta di piedi nel sistema di prima accoglienza ai migranti. Quando siamo arrivati, il vento soffiava forte e per due giorni nessuna barca è approdata alla “porta d’Europa”. Questi giorni di inattività sono stati preziosi per osservare l’isola e conoscere le persone che vi abitano.

Tombe di migranti tra le tombe dei lampedusani

Il primo luogo che abbiamo visitato è stato il cimitero, dove Don Carmelo La Magra, allora parroco dell’isola, ci ha raccontato storie di migranti, molti dei quali senza nome, sepolti tra le tombe dei lampedusani. Abbiamo sostato sulle tombe di Ester Adda, una ragazza nigeriana di 18 anni, e di Welela, una giovane eritrea che, a causa dell’orrore vissuto nei campi di prigionia libici, è arrivata sull’isola già morta per le ustioni subite prima di salpare. C’è poi la tomba del piccolo Youssef, originario della Guinea, morto a soli sei mesi, dopo un naufragio al largo della Libia nel novembre del 2020.

Papa Francesco ha spesso definito il Mediterraneo come il cimitero più grande d’Europa, una fossa comune, un freddo cimitero senza lapidi. I dati dell’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR) ci permettono di capire meglio tali definizioni: dal 2015 al 2022 nel Mediterraneo sono morti o sono dispersi 23.344 migranti; solo nei primi cinque mesi di quest’anno (fino al 14 maggio 2023), 983 sono stati i morti o i dispersi in mare. Dietro ad ogni numero c’è una storia, un volto, una vita.

Le suore a Lampedusa, donne di carità e speranza, sorelle nella fede

Abbiamo poi incontrato suor Paola e suor Franca, che fanno parte di una comunità inter-congregazionale istituita sull’isola nel 2015 dall’UISG (Unione Internazionale Superiore Maggiori). La comunità ha come obiettivo quello di fornire assistenza nella prima accoglienza ai migranti, nonché di contribuire alla vita della comunità locale attraverso un ruolo attivo nella parrocchia lampedusana. Le due religiose ci hanno introdotto in un altro luogo importante, un luogo in cui abbiamo trascorso la maggior parte del nostro tempo: il molo Favaloro. Su questo molo avvengono gli arrivi dei migranti intercettati in mare dalle forze dell’ordine e lì trasportati in sicurezza dalle motovedette. L’immagine che colpisce appena si entra all’attracco è l’ammasso di barconi che galleggiano in mare: usati dai migranti per le loro traversate, depositati lì in attesa di smaltimento. Guardandoli da vicino si comprende tutta la precarietà e l’insicurezza del viaggio.

Uniti nell’accoglienza, cattolici e protestanti tendono un’unica mano

Insieme alle suore, al molo di Lampedusa operano anche i membri di Mediterranean Hope, l’osservatorio permanente del Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), presenti sull’isola dal 2013, dopo la tragica perdita di 368 vite nel naufragio del 3 ottobre di quell’anno, avvenuto a poche miglia dalla costa. Tra gli operatori protestanti, che quotidianamente si recano al molo per accogliere i migranti in modo umano e caloroso, c’è Francesco che usa l’arte per raccontare il dolore e l’ingiustizia della frontiera. I suoi coloratissimi disegni raccontano con gentilezza e profondità tutto il carico emotivo dei migranti e di chi li accoglie.

La tangibile sinergia tra cattolici e protestanti è un esempio privo di retorica, concreto e spontaneo di ecumenismo, che li vede lavorare, pregare e accogliere insieme.

 Accogliere con umanità

Sono stati soprattutto gli operatori di Mediterranean Hope a spiegare a noi frati come operare al molo. La nostra principale attività è stata quella di accogliere i migranti appena sbarcati. In un ambiente fortemente militarizzato, quale è il molo, la presenza della società civile diventa fondamentale per rendere l’approdo più umano, l’arrivo più dignitoso, e stabilisce la cifra della nostra stessa dignità. Insieme agli operatori protestanti, alle suore e ad altri volontari del ForumLampedusa Solidale, eravamo lì per offrire un sorriso, un bicchiere d’acqua, una merendina, una coperta termica quando necessario, giocare con i bimbi, dare loro un pupazzetto e magari colorare con dei gessetti il grigio pavimento del molo.

Mettere piede sulla terra ferma è un momento estremamente importante per coloro che hanno attraversato il mare. Ho visto ragazzi siriani mettersi una maglietta pulita per poter dare a quel momento la massima dignità possibile; ho visto persone ringraziare il cielo con gli occhi lucidi di commozione; ho visto ragazzi che cercavano di telefonare ai loro cari per comunicare che semplicemente erano vivi. Molti di loro portavano sui loro corpi segni evidenti di tortura subita nei campi di detenzione libici, altri soffrivano per le ustioni causate dal carburante che, disperdendosi nell’acqua del mare dentro il gommone, inevitabilmente li bagnava e quindi li bruciava.

Una scena che può riassumere gli approdi a cui ho assistito è stato l’arrivo autonomo di un barchino che trasportava due intere famiglie tunisine. C’erano i genitori, un paio di anziani e almeno cinque bambini. Vedendo quell’immagine, ho vissuto tutta la loro commozione per essere arrivati insieme vivi e in buone condizioni: io ero felice insieme a loro. Dall’altro lato ho percepito anche tutta l’angoscia che ha costretto quelle persone a mettere a bordo quei bambini su un mezzo per nulla sicuro. In quel momento ho capito la disperazione di quei genitori, che evidentemente hanno ritenuto meno pericoloso affrontare il mare, che restare nella loro terra. Non hanno avuto scelta. A questa mancanza di libertà il Papa ha dedicato il Messaggio per la 109ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2023, che ha infatti come titolo “Liberi di scegliere se migrare o restare”.

L’isola, paradigma del mondo

Lampedusa non è solo un tipico paesino siciliano che vive di mare, sole e classiche passeggiate lungo l’affollato corso. Piuttosto è un luogo paradigmatico della diseguaglianza sociale per tutto il pianeta: nello stesso mare, in un contrasto stridente e drammatico ci sono da una parte i turisti, villeggianti immersi nella bellezza di spiagge incontaminate, tra un giro in barca e un aperitivo al tramonto, e dall’altra migliaia di persone disperate che rischiano e spesso perdono la vita per scappare dalla povertà e dalla violenza. Quello stesso mare, per gli uni è strumento di distrazione, per gli altri di distruzione.

Nessuno dovrebbe essere costretto a migrare, e a migrare in questo modo.

Noi come cristiani siamo chiamati a riconoscere nei migranti lo stesso Gesù, che ci benedirà perché lo abbiamo accolto quando da straniero ha bussato alla nostra porta.

 

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