In carcere: giustizia e/o misericordia?

Marco Ruggiero, di Bari, è uno studente del V anno del ciclo istituzionale per il baccalaureato presso l’Istituto Santa Fara di Bari. Marco segue il cammino formativo per il diaconato permanente. La sua domanda nasce direttamente dall’esperienza pastorale in questo ambito.

In questi ultimi mesi sto facendo un’esperienza di servizio come tirocinio pastorale presso la cappella dell’Istituto Penale per Minorenni “N. Fornelli” di Bari.

La sfida è avvincente e le difficoltà non risiedono tanto nella relazione con i ragazzi – segnata dalla diffidenza e la paura – quanto nell’incapacità della nostra società civile di reinserirli adeguatamente in una vita sociale sana dopo aver scontato la pena. 

Proprio questa esperienza ha fatto sorgere in me alcune domande: Oggi l’efferatezza della violenza, in tutte le sue forme, sta provocando un clima sempre più insicuro e una sete sempre crescente di “vendetta sociale”. Inasprire le leggi penali, risolvere tutto ricorrendo solo alla detenzione è giusto? In uno sguardo più ampio come possiamo introdurre la misericordia cristiana nell’orizzonte sociale di giustizia? Come prevenire e “riparare” il male?

Donata Horak, laureata in giurisprudenza e in teologia, insegna diritto canonico  presso lo Studio Teologico Alberoni di Piacenza. È socia ordinaria del Coordinamento delle teologhe italiane e si occupa di questioni di genere, ecclesiologia, diritto e riforma delle chiese. È socia dell’associazione Verso Itaca APS con la quale collabora a progetti su giustizia riparativa, mediazione umanistica ed esecuzione penale nelle scuole secondarie di secondo grado.

“Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno” (Sal 85,11): la Scrittura promette la realizzazione piena della giustizia e della misericordia, eppure molte persone, credenti e cristiane, pensano che questo ideale sia realizzabile solo in Dio, mentre nella storia giustizia e misericordia non possono che eludersi a vicenda.

Una giustizia retributiva?

Alla base di questo pensiero, c’è una idea retributiva della giustizia, che pure affonda le sue radici nella Scrittura: “Occhio per occhio, dente per dente” (Es 21,24) è scritto; la Legge di Mosè ha introdotto importanti valori di civiltà: la giusta proporzione tra offesa e punizione, e il superamento della vendetta privata mediante l’intervento di un giudice super partes, ovvero in posizione di terzietà rispetto alle parti in conflitto. Prima della legge, Lamech poteva uccidere per un graffio (Gn 4,23). Il principio retributivo ha quindi introdotto un importante elemento di civilizzazione, sottraendo le esigenze della sicurezza sociale e della riparazione dei danni alla giustizia privata e alla logica della vendetta smisurata.

L’istituzione dei tribunali è il primo dei principi noachici, ovvero delle leggi “naturali” dell’umanità rinata dal grande diluvio; Mosè si è preoccupato di organizzare in modo dettagliato la magistratura (Es 18, 24-26) perché fosse assicurato un giudice a chiunque si sentisse leso nei suoi diritti. Nonostante la centralità dell’amministrazione della giustizia nell’organizzazione sociale di Israele, in ogni epoca si devono fare i conti con i limiti del sistema. Chi farà giustizia all’orfano, alla vedova, al povero? Come ottenere una giusta sentenza da giudici corrotti o negligenti? Quando la giustizia umana è sorda al grido di chi non ha altri mezzi per farsi valere, si fa ricorso al tribunale celeste, cioè ci si affida a Dio, il Giusto Giudice che ascolta il grido di chi non ottiene giustizia.

La metafora giudiziaria è dunque ampiamente utilizzata nella Bibbia per parlare del modo di agire di Dio nei nostri confronti. Se questi testi vengono interpretati entro lo schema retributivo, ne risulta un Dio severo, spietato, moralista e, a tratti, vendicativo. Se leggiamo i discorsi di accusa di Dio come sentenze di un giudice terzo all’interno di un processo, si rafforza l’idea di un Dio che deve far tornare i conti, che chiede sacrifici, che nel giudicare condanna e allontana da sé almeno una delle parti. Nel processo, infatti, una delle due parti viene vinta: la giustizia retributiva si afferma con l’inflizione di azioni riparatorie e sanzioni penali, quindi con l’esercizio di un potere coercitivo a garanzia della esecuzione della sentenza. C’è un nocciolo di violenza nell’amministrazione della giustizia retributiva; lo Stato, o chi detiene l’autorità di governo, è legittimato ad usare una certa violenza, nei limiti stabiliti dalle leggi. Ma è corretto applicare questo schema al Creatore della vita? Ne risulta l’immagine di un Dio che ha bisogno di punire, di far espiare le ingiustizie con azioni afflittive, e rimettere in equilibrio bene e male.  Da qui discende tutta una teologia del sacrificio, che ha investito anche l’interpretazione della Pasqua di Gesù, intesa come espiazione vicaria.

In tale prospettiva, il Dio che largamente perdona viene contraddetto dalla sua stessa azione e parola di condanna.

La giustizia retributiva si rivela, infine, fallace. Nel rispondere al male con altrettanto male, dà una parziale soddisfazione alla vittima, costringe il colpevole a una riparazione forzata, ma non genera un nuovo ordine sociale. È una modalità di amministrazione della giustizia che si volge indietro, si concentra sul reato già commesso, mentre le persone e la loro relazione non sono oggetto del processo. Questa considerazione è valida ancora ai nostri giorni, nonostante l’evoluzione del diritto processuale nel corso della storia: la vittima nel processo penale non ha un ruolo, non viene riconosciuta nel suo dolore, nel suo vissuto e nelle conseguenze che l’azione ingiusta ha provocato. Il processo è centrato sul reato e sul reo, che interessa solo in quanto destinatario della pena; in minima parte si tiene conto della sua esigenza di ricominciare a vivere dopo essersi assunto con piena consapevolezza la responsabilità del male commesso.

Una giustizia riparativa?

Ciò sarebbe possibile soltanto se vittima e colpevole potessero guardarsi negli occhi, comunicare i loro vissuti e trovare un terreno se non di riconciliazione, almeno di reciproco riconoscimento. È questo l’obiettivo dei programmi di giustizia riparativa, che in Italia – dopo una lunga applicazione in ambito minorile – sono stati recentemente introdotti in tutti i gradi del processo o nella fase di esecuzione della pena, per tutti i tipi di reato.

Anche la giustizia riparativa trova le sue radici nella Bibbia. Nell’esperienza storica del popolo di Dio, accanto alla via processuale, era praticata un’altra via di giustizia: il contenzioso bilaterale (rib). Si tratta di un procedimento formale, che avviene direttamente tra le parti in conflitto, in assenza di un giudice, di solito innescato dalla parte che si ritiene lesa in un suo diritto; attraverso il formale atto di accusa e la sua accettazione da parte dell’accusato, inizia un confronto diretto tra le parti, con una ritualità che comprende l’istruttoria, la presentazione di testimonianze e prove, la possibilità per entrambe le parti di argomentare le proprie ragioni. Il rib ha maggiori possibilità di riuscita se i soggetti coinvolti appartengono allo stesso clan familiare o sono legati da vincoli di alleanza. Se riescono ad assumersi le reciproche responsabilità, possono trovare non solo un accordo per il risarcimento del danno avvenuto nel passato, ma ridefiniscono anche i termini della loro relazione per il futuro, ridisegnano i confini, stipulano un nuovo patto. Alla fine del rib, sul campo non restano un vinto e un vincitore, ma due persone nuove, rigenerate, aperte al futuro.

La giustizia rigenerativa: una forma di amore, di cura e di futuro

Se si abbandona la prospettiva retributivo-afflittiva, si possono leggere le metafore giudiziarie riferite a Dio in modo davvero nuovo. Sono innumerevoli i testi biblici che solitamente leggiamo come rimproveri morali di Dio, o sentenze di condanna per le infedeltà del popolo, ma che potrebbero essere interpretati all’interno della procedura formale del rib. In molte invettive profetiche Dio non emette una sentenza definitiva contro il popolo, ma sta provocando il rib, sta cercando di portare il popolo ad accettare il confronto. Allora la durezza del linguaggio, la minaccia di punizioni, lo sdegno e l’ira di Dio, assumono tutto un altro senso: non veicolano sentenze divine definitive (tanto più che non vengono quasi mai eseguite: emblematico è il libro di Giona), ma dell’atto di accusa di una parte che si sente tradita ingiustamente. In altri termini, Dio non è il giudice escatologico, ma è la parte lesa, che non si stanca di voler ricominciare e rifondare l’alleanza con il suo popolo.

La giustizia rigenerativa coincide dunque con la misericordia, una grazia a caro prezzo, che passa attraverso il conflitto, l’assunzione della verità e la conversione: la giustizia è una forma di amore che cura, apre al futuro e riconcilia con la vita.

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