L’abuso di coscienza: riconoscerlo per evitarlo

Don Raffaele Bucci, classe 1998 e originario di Ruvo di Puglia, è un diacono della Diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi. Attualmente frequenta il VI anno di formazione presso il Pontificio Seminario Regionale Pugliese Pio XI di Molfetta, è iscritto alla licenza in Teologica dogmatica presso la Facoltà Teologica Pugliese ed è educatore nella comunità del Seminario Arcivescovile di Molfetta.

L’inizio del ministero pastorale come educatore presso il Seminario Arcivescovile di Molfetta e alcuni spunti emersi durante i laboratori formativi del VI anno, mi hanno dato l’occasione di fermarmi a riflettere su un tema oggi molto caldo nei contesti ecclesiali: l’abuso di coscienza.

Vorrei condividere qui alcune domande che sono affiorate dalla mia riflessione, per stimolare la riflessione e il confronto sul blog di pomundivita.it:

1)In un mondo che sempre più ha bisogno e sete di “discernere” situazioni e accadimenti nella propria vita, chiede a noi la difficile arte di accompagnare. Come è possibile servire la coscienza senza ricadere nel rischio di abusarne?

2)In un rapporto asimmetrico, quale forma concreta richiede questa diaconia, atta non a sostituire la coscienza ma a far emergere quella legge di libertà scritta nel cuore di ciascuno?

Alle domande di Raffaele, risponde la prof.ssa Gaia De Vecchi. Dopo aver conseguito il baccalaureato in Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Gaia ha ottenuto il dottorato in Teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Ha ricoperto diversi ruoli di insegnamento in diverse Facoltà Teologiche in Italia. Attualmente insegna presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, la Pontificia Università Gregoriana di Roma e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano. Inoltre, da molti anni, presta il suo servizio di docenza di religione cattolica presso l’Istituto “Leone XIII” di Milano. È delegata dell’ATISM per la Sezione Nord ed è responsabile del comitato di redazione del blog Moralia.

Una premessa

“Abuso” deriva dal verbo latino abuti. Significa “usare male” (uti è il verbo che significa “usare” e ab va inteso come eccesso). Che si tratti di abuso sessuale, di coscienza o spirituale l’uso errato in atto è quello del potere, profonda radice comune a qualsivoglia realizzazione storica di abuso. In ogni abuso il potere è inteso come un “potere su”, in cui l’interlocutore è schiacciato e dominato, contrariamente ad un uso sano del “potere di” in cui l’altro è valorizzato e accompagnato.  

Fatta questa breve premessa, provo ad abbozzare una breve, duplice risposta alle due domande che mi sono state poste, formulando maggiormente tracce di lavoro che responsi definitivi.

 

Riconoscere la struttura degli abusi
  • In un mondo che sempre più ha bisogno e sete di “discernere” situazioni e accadimenti nella propria vita, chiede a noi la difficile arte di accompagnare. Come è possibile servire la coscienza senza ricadere nel rischio di abusarne?

Ritengo che il primo, essenziale ed ineliminabile, passo da compiere sia quello di conoscere la “struttura” degli abusi, in modo da poterli riconoscere, prevenire e spezzare. Senza un’adeguata conoscenza, è facile cadere in forme più o meno gravi di abuso (sia come abusati che come abusatori). E per (ri)conoscere dobbiamo innanzitutto porre dei distinguo.

 

Per prima cosa, mi pare utile una distinzione dei termini. Se con “abuso sessuale” noi facilmente leghiamo la dinamica di potere alla sfera della sessualità (intesa globalmente, come corpo, psiche e relazioni), più difficile è distinguere tra “abuso di coscienza” e “abuso spirituale”. Per questo scritto provo così a delineare: l’abuso di coscienza è quando si menoma la libertà altrui; l’abuso (di coscienza) spirituale è quello specifico abuso di coscienza (e pertanto di menomazione della libertà) che avviene tramite categorie, paradigmi, ruoli o istituzioni religiose. Doppio abuso, di fatto, quello “spirituale”: sullo spirito dell’altro e sullo Spirito Santo, del quale ci si appropria indebitamente.

In forza di questa distinzione, possiamo facilmente individuare due elementi che possono agire, e financo interagire – rafforzandosi a vicenda –, nell’abuso spirituale:

  • una personalità manipolatrice, spesso individuabile in colui (colei) che ha funzione di guida o ha ruolo di responsabilità;
  • unastruttura abusiva e abusante, favorita dalle regole e dall’autocomprensione di una istituzione religiosa.

 

Un esempio su tutti: come e quanto può essere frainteso e manovrato l’atteggiamento (la virtù, la promessa, il voto…) di “obbedienza” da una personalità manipolatrice? E da una struttura abusiva ed abusante? Come e quanto possono intrecciarsi queste due dinamiche? 

Pare evidente, a questo punto, che due sono le aree da monitorare (sia rispetto all’abusatore sia rispetto all’abusato, ma anche rispetto alle strutture) per coglierne segnali:

  • la gestione relazionale, ovvero la capacità (o incapacità) di instaurare relazioni sincere e trasparenti, di vivere il sincero servizio, di costruire comunità e fratellanza…
  • la gestione dell’autorità, dove spesso si scontrano proprio quei modelli di comprensione del potere citati in precedenza (potere su / potere di).

Un utile strumento per approfondire questo (ri)conoscere l’abuso spirituale è il seguente: Giorgio Ronzoni, L’abuso spirituale. Riconoscerlo per prevenirlo, Edizioni Messaggero Padova-Facoltà teologica del Triveneto, Padova 2023).

 
Alcune vie da percorrere per non abusare della coscienza
  • In un rapporto asimmetrico, quale forma concreta richiede questa diaconia, atta non a sostituire la coscienza ma a far emergere quella legge di libertà scritta nel cuore di ciascuno?

Come sempre, non c’è una formula magica che possa funzionare in modo meccanico e sia valida sempre e comunque. L’unico atteggiamento sbagliato, di fronte a questa piaga, è quella dell’adottare la politica dello struzzo. Mi sento tuttavia di poter indicare alcune vie da percorrere.

 
La formazione del popolo di Dio

Innanzitutto, va posta una maggiore attenzione alla formazione di ogni componente del Popolo di Dio, formazione che non punti a guidare solo gli aspetti intellettuali, ma anche quelli psicologici e relazionali. Tale formazione (puntuale, certo, ma indubbiamente anche permanente) deve considerare centrale il modo in cui si vive il “potere”, sia in forma attiva sia in forma passiva. Pertanto, mi paiono urgenti tre passaggi:

  • una rinnovata riflessione della teologia “in un dialogo a tutto campo” (VG 4b) sul tema del potere, ricordando che “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire” (Mc 10,45).
  • un ripensamento e rinnovamento della tradizionale distinzione, e talora insana commistione, tra “foro interno” e “foro esterno”;
  • una più lucida attenzione a quelle forme “blande”, e solo apparentemente innocue, di abuso spirituale che avvengono nel quotidiano e che tutti, chi più chi meno, alimentiamo (in senso attivo o passivo). In tal senso accenno solo brevemente ad alcune forme di “paternalismo / maternalismo” o di “mansplaining” che spesso nella Chiesa assumono forme grottesche.
 
Il ripensamento delle strutture

Tale riflessione non può non portare ad un ripensamento di molte categorie, paradigmi e delle nostre stesse strutture (ad esempio, come accennato anche in precedenza, urge una rinnovata riflessione sul tema dell’obbedienza, ma anche il rivedere quelle strutture in cui il “potere” si concentra in un’unica figura di riferimento), in cui abitualmente viviamo, operiamo e testimoniamo. E in tal senso auspico anche un profondo ripensamento della relazione tra “carisma” e “autorità”.

 

La vulnerabilità come categoria antropologica

Infine, per quanto riguarda più direttamente la riflessione teologico-morale, invito tutti (me compresa) a soffermarci con più insistenza a riflettere sul tema della “vulnerabilità” come categoria ontologico-esistenziale

Non alludo a quella “vulnerabilità speciale” (UNESCO 2005) che la lettera apostolica in forma di motu proprio, Vos estis lux mundi, definisce come «minore» (1, §2a) o «qualsiasi persona che si trovi in uno stato di infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che, di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere e di volere o comunque di resistere all’offesa» (1, §2 b). Mi riferisco più energicamente a quella “vulnerabilità” radicale, appunto ontologico-esistenziale, che è parte della nostra stessa condizione umana. Non si tratta di una imperfezione, di una fragilità fine a se stessa, di un difetto, ma della capacità di aprirsi all’altro e, di conseguenza, la possibilità di esserne anche feriti. Se è vero che la vulnerabilità «espone gli esseri umani all’essere benedetti e feriti, al bene e al male[1]», è altrettanto vero che la “vulnerabilità” è conditio sine qua non del discepolo, di ogni discepolo.

 

 

[1] Langberg, Diane. 2020. Redeeming Power: Understanding Authority and Abuse in the Church. Grand Rapids: Brazos Press, p. 19.

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