Dignitas infinita. Un commento

di Antonio Autiero *

Già il titolo della Dichiarazione del Dicastero Vaticano per la dottrina della fede, pubblicata l’8 aprile 2024 merita una particolare attenzione. Il motivo non è tanto per la sua originalità, dal momento che esso rimanda ad una espressione già ricorrente in precedenti testi di magistero pontificio, quanto piuttosto per quell’interessante e provocatorio spazio evocativo creato dalla figura dell’infinito, racchiusa nell’aggettivo scelto a qualificare la dignità, di cui il documento vuole parlare.

Un filo rosso sul tema della dignità

Sul tema stesso della dignità umana la voce del magistero non è nuova. In particolare, con il Concilio Vaticano II (Dignitatis humanae) e in diversi pronunciamenti in epoca postconciliare, esso si era espresso a riguardo. L’odierno documento, dopo una lunga fase di preparazione che viene fatta risalire al 2019, riprende nella sua introduzione (Nr. 1-9) il filo rosso di tale insegnamento, quasi a volerlo ricapitolare e compattare, utilizzando anche la metodica dell’abbondante rinvio a testi magisteriali precedenti e inculcando l’idea di una continuità da non ignorare. Per entrare nel tema si fornisce anche una chiarificazione previa sull’ampiezza semantica del concetto di dignità, distinguendone le dimensioni ontologica, morale, sociale, esistenziale, con il chiaro indicatore di importanza fondativa dell’approccio ontologico. Questo fattore non è marginale, perché crea in realtà sia la cifra di lettura che l’opzione interpretativa in cui il documento intende collocarsi. Privilegiare il piano ontologico e mettere in connessione con esso gli altri piani esprime un chiaro orientamento fondativo da cui intenzionalmente si vuole ricavare solidità al ragionamento, ma dal quale ci si deve anche aspettare una inevitabile astrattezza nell’impianto teoretico e una caratteristica di staticità e di strettezza normativa nella considerazione dei problemi concreti affrontati nella parte finale del documento. A tali rischi non era impossibile sfuggire. Ma l’impianto rigidamente ontologico avrebbe dovuto essere integrato con uno sguardo fenomenologico, non meno rigoroso, ma di certo più calibrato, flessibile e promettente dal punto di vista ermeneutico. Proprio questo approccio, infatti, aiuta a contestualizzare anche una tematica così fondamentale, valorizzando sia il suo tenore personalistico, sia la dimensione storica in cui l’essere persona si svolge, la percezione della dignità si incarna e la declinazione dei diritti ad essa legati si evolve.

Le diverse parti della Dichiarazione

Nell’architettura della Dichiarazione, scandita in quattro parti, le prime tre sviluppano una lettura fondativa del concetto di dignità, non ignorandone la presenza sia nell’elaborazione della filosofia classica, sia nelle prospettive biblico-teologiche della tradizione cristiana. Il confronto con le correnti della filosofia moderna viene succintamente richiamato, senza tuttavia lasciar intendere la reale portata della valenza che esse hanno per l’antropologia e la morale. Questo porta (Nr. 22 e 25) a una considerazione piuttosto funzionale della libertà, senza esprimerne la densità fondativa del soggetto e della sua dignità e senza indicarne la risorsa emancipatoria, per costruire più umanità. Una maggiore attenzione alla percezione non sospetta della modernità starebbe in buona compagnia con la ricchezza di significato che la seconda e la terza parte del documento dedicano alla ricostruzione teologica del tema. L’intreccio tra creazione, incarnazione e risurrezione (Nr. 20) come luoghi rivelativi della dignità umana disegna un telaio di senso per la dignità, il cui substrato antropologico, dal canto suo, è fatto di reale valorizzazione della persona, della sua libertà e della sua responsabilità. Per non ricadere in rigurgiti antimoderni, il nesso dignità-libertà va doverosamente mantenuto nel suo regime di fattore imprescindibile e incondizionato.

Su quest’asse di pensiero il documento costituisce lo spunto per un prezioso strumento di dialogo con la cultura moderna, nelle sue articolazioni filosofiche ed antropologiche. Infatti, mettere al centro del confronto con il mondo secolare il tema della dignità è una formidabile occasione di reciproco arricchimento; stimare e valorizzare fattivamente il cammino che l’umanità fa nella percezione della dignità di ogni persona e dei suoi inalienabili diritti è una condizione irrinunciabile per la chiesa.

L’impegno della chiesa per la dignità e i diritti

Dall’altro lato è importante che la chiesa renda ragione – e il documento contribuisce intenzionalmente a questo – del cammino che essa stessa, lungo i secoli, ha fatto e intende ancora fare nel riconoscimento della centralità della dignità di ogni persona. Ma questo richiede anche consapevolezza critica nel non ignorare resistenze e lentezze con cui certi processi di emancipazione sono stati affaticati e ritardati dall’ottica di una antropologia cristiana astratta e avulsa dalla realtà. L’enfasi sicuramente significativa (Nr. 17-21) sul tema della dignità in connessione con l’idea dell’uomo come immagine di Dio acquista autenticità e forza, se non si dimentica il travagliato cammino che essa ha richiesto per essere considerata effettivamente attribuita ad ogni essere umano. L’aggettivo “infinita” presente nel titolo non sta a dire solo che la dignità non ha limiti e non ha condizioni, ma dice anche che il suo riconoscimento è legato a uno sforzo e a un compito che non sono ancora finiti e non lo saranno mai. In questo senso la categoria di dignità non afferisce alla sfera di una norma definita di valutazione morale, ma fonda un orizzonte aperto di senso e costruisce un’euristica di orientamenti per discernere creativamente il reale e per decidere sul come agire. Pensare alla dignità come ad un principio generativo di movimento e non come ad un argine definito una volta e per tutte nel suo rigore normativo vuol dire in realtà tenere aperto il ventaglio di ricognizione del reale e della sua complessità, sapersi orientare discorsivamente e dialogicamente per le scelte morali da compiere.

Nel tema della dignità vanno coniugati insieme il suo valore fondativo dell’orizzonte di senso e il suo apporto euristica per le decisioni morali, laddove l’anello di congiunzione è dato dalla densità/dignità della persona, dalla sua responsabilità per la propria e l’altrui libertà. Se si infrange questo equilibrio, il concetto di dignità diventa un postulato con cui si ritiene di poter risolvere, senza dovute mediazioni, le questioni morali incombenti.

Dove la dignità è messa a rischio

Il documento allinea ai primi tre capitoli di carattere fondativo un quarto capitolo nel quale diverse aree di tematiche etiche concrete vengono rapportate al tema della dignità. I tredici temi affrontati spaziano dalle problematiche della povertà, della guerra, delle migrazioni, degli abusi sessuali, della violenza contro le donne, della tratta delle persone, dell’aborto, della maternità surrogata, dell’eutanasia, del trattamento dei diversamente abili, della teoria del gender, del cambio di sesso, della violenza digitale. L’evidente ampiezza di compasso attesta una sensibilità etica molto larga, a cui il magistero di Papa Francesco ci ha saputo educare. Essa è capace di affacciarsi alle dimensioni personali, interpersonali sociali e strutturali delle questioni morali del nostro tempo, con l’intento di riportarle alla questione radicale della dignità umana minacciata o calpestata. Tuttavia, nel quarto capitolo del documento c’è una eterogeneità delle questioni – non solo in termini di dimensioni, ma anche di complessità – che induce a semplicemente sfiorarle nei brevi tratti dei paragrafi ad esse dedicati, al punto tale che sia l’impianto argomentativo che l’effetto delle formulazioni normative risultano mortificati. C’è una riduzione talvolta semplicistica delle problematiche e una mancanza di elaborazione discorsiva che fa risultare il giudizio morale apodittico. In ragione poi dell’opzione ontologica della fondazione della dignità di cui sopra abbiamo parlato, i giudizi normativi dell’ultima parte finiscono per essere costruiti con logica principialistica e deduttiva. Il ricorso a luoghi comuni, senza un adeguato approfondimento delle questioni impressiona negativamente e fa sorgere la domanda sul reale rispetto della condizione esistenziale – e quindi della dignità – propria dei soggetti interessati (come nel caso del passaggio sul cambio di sesso, al Nr. 60). Ma anche i paragrafi dedicati alla maternità surrogata (Nr. 48-50) e alla teoria del gender (Nr. 55-59) rivelano una limitata considerazione della complessità delle questioni. Per la prima ci si espone a un rifiuto morale a corto circuito argomentativo, senza alcuna differenziazione di tipologia del fatto in questione e con la richiesta di proibizione a livello universale (Nr. 48) che presta il fianco a disegni reazionari, ventilati nei programmi politici di tante parti del mondo. Per la questione del gender si rimane su una comprensione parziale di essa, chiusi a ogni sforzo di approfondimento delle articolazioni così diversificate che i Gender Studies da tempo e documentatamente ci forniscono. Il linguaggio rigido e severo con cui il documento si esprime (si pensi che è l’unico passaggio in cui si usa un aggettivo di valutazione morale al superlativo “teoria pericolosissima” – Nr. 56) fa pensare a una rigidità di giudizio definitivo e irriformabile. Sorprende questo a maggior ragione se si pensa che proprio in questi stessi frangenti di tempo esce l’ultimo libro di Judith Butler, l’autrice più rappresentativa degli studi di genere, con il titolo WHO’S AFRAID OF GENDER? (Farrar, Straus & Giroux, New York 2024). Ella si chiede come mai ci sia in giro tanta paura del tema gender e lancia l’appello a una possibilità di confronto e di dialogo su questi temi, proprio per non cadere in concezioni preconcette, costruite ed enfatizzate senza adeguata conoscenza delle questioni in oggetto.

Sarebbe un peccato se la Dichiarazione Dignitas infinita venisse presa a scudo per chiudersi a ogni dialogo. La posta in gioco della dignità di ogni persona rende più che doveroso l’approfondimento competente delle questioni e più che plausibile l’esercizio instancabile della pazienza argomentativa nell’affrontare i problemi morali del nostro mondo.

Antonio Autiero è nato a Napoli nel 1948, ha conseguito la laurea in Filosofia (Istituto Universitario Orientale, Napoli) e il dottorato in Teologia morale (Accademia Alfonsiana, Roma).
Dopo i primi anni di insegnamento a Napoli, a Roma e a Bonn, dal 1991 al 2013 è stato professore ordinario di teologia morale all’Università di Münster (Germania), di cui è ora docente emerito. 
E’ membro di diverse società scientifiche e commissioni etiche. Le sue pubblicazioni (in numero di circa 250 in monografie, parti di libri collettivi, articoli in riviste scientifiche) spaziano dalle questioni di morale fondamentale, teorie etiche, bioetica, etica della ricerca scientifica ed etica ecologica.

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