Voto: diritto e responsabilità

La domanda di Roberto Carbotti

Roberto, 23 anni e originario di Grottaglie, è uno studente del 4 anno del ciclo istituzionale presso l’ITRA di Molfetta e seminarista per l’Arcidiocesi di Taranto presso il Pontificio Seminario Regionale Pugliese PIO XI di Molfetta.

Alla vigilia delle elezioni per il Parlamento Europeo, risulta necessario riflettere sul senso del voto. Assistiamo infatti a un disinteresse generale sul tema, accompagnato da una certa sfiducia che conduce a disertare l’esercizio di questo specifico diritto-dovere previsto dalla Carta costituzionale. 

Quale responsabilità risiede nell’elettore e, specularmente, nei candidati, destinatari della fiducia dei loro concittadini? Quali forze virtuose coinvolgere sulla scena degli attori della vita politica?

La risposta di don Bruno Bignami

Don Bruno, classe 1969, ordinato presbitero nel 1994 per la diocesi di Cremona, attualmente è Direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI.  Docente incaricato di Teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana in Roma, è anche presidente della Fondazione “Don Primo Mazzolari” di Bozzolo e postulatore della causa di beatificazione di don Mazzolari.

Il trend è sempre più in discesa e negli ultimi anni non conosce cambi di passo. Sia alle elezioni politiche che alle regionali o alle comunali vi è una conferma quasi sicura: la crescita degli aventi diritti al voto che preferiscono disertare le urne. Inutile ricordare le percentuali, che ogni volta diventano un nuovo record. In alcuni casi si è persino superato il crinale di un elettore su due, abbattendo un muro che sembrava irraggiungibile. C’è da preoccuparsi.

Un altro dato deve far riflettere. A livello locale capita che alle amministrative non si riesca neppure a fare due liste disposte a fronteggiarsi. Anche questo è un segnale da non trascurare circa il livello di partecipazione. Se non ci sono candidati significa che l’atteggiamento della delega e dell’indifferenza stanno prendendo il sopravvento.

L’astensionismo e il disinteresse indossano anche le casacche del voto cattolico. Nelle parrocchie, però, è difficile trovare luoghi di confronto civico e vi è un generale atteggiamento di sospetto verso la politica. Due preoccupazioni altrettanto deleterie stanno dominando il mondo cattolico: l’uso strumentale delle candidature con richieste specifiche circa i temi che gli stanno a cuore (la Chiesa finisce così per essere identificata come una lobby qualunque con una lista di desiderata cattolici) o la fredda distanza di chi non vuole immischiarsi in schieramenti politici (i candidati alle elezioni lamentano di essere guardati con diffidenza).

È il tempo in cui prendere ago e filo per rammendare un vestito strappato. Per poterlo fare occorre ragionare sulle cause. Perché tanta disaffezione? Come mai la democrazia è così trascurata? Perché le comunità cristiane rischiano di chiudersi nelle sacrestie?

Una causa sicuramente è da annotare nella qualità della politica. Diversi fattori hanno concorso negli ultimi anni a peggiorare la situazione. I partiti sono diventati padronali. I leader non sono punti di riferimento ideali, ma per lo più proprietari. È difficile assistere a dibattiti interni ai partiti e il livello democratico è assai scadente. Complice una legge elettorale sbagliata, dal centro si decidono le candidature secondo criteri di fedeltà al capo. Le periferie sono ridotte a serbatoi di voti, spesso senza contatto diretto tra elettori ed eletti. I politici più che avere un pensiero devono essere yes man. Piegati alle volontà del leader riescono a garantirsi posti sicuri in seggi blindati e una carriera politica il più lunga possibile. Non c’è spazio per altri, che al massimo devono accontentarsi della collocazione in seconda fila, a raccogliere voti ma con poche speranze di finire in Parlamento.

Inoltre, la politica è sempre più urlata e di contrapposizione. Anche questo genera sfiducia. Mentre il bene comune esige persone che sanno fare rete e costruire ponti, la critica spietata degna di un mediocre talk show televisivo porta a divisioni e conflitti insanabili. La democrazia ha bisogno di pontieri e non di incendiari. La conseguenza è che guadagnano consenso soprattutto le posizioni più radicali. Alcuni temi non vengono mai affrontati in modo serio e assistiamo a semplificazioni ideologiche: l’Europa, la pace, i migranti, la politica estera, la sanità, la scuola, il lavoro, l’ecologia, la mobilità, il fisco… sono temi dove sembra averla vinta non chi prova a portare avanti un ragionamento complesso, ma chi grida la propria differenza. In sede elettorale la presenza sulla comunicazione social sembra far crescere il consenso verso chi si smarca per affermare una posizione altra.

Infine, possiamo ricordare anche un livello culturale individualista che ha falciato alla radice la volontà di costruire partecipazione. A forza di predicare che la vera libertà è chiudersi a riccio nei propri interessi, senza pensare ai legami sociali come a esperienze di vera tutela della libertà, ci siamo convinti che ognuno deve pensare a se stesso. In realtà, «per non cadere in contraddizione con sé stessa, la libertà ha bisogno di essere transitiva, cioè di procedere su altri, così come sono i percorsi di liberazione di chi ci ha preceduto a consentirci la libertà di cui disponiamo. La libertà, per non tradirsi, deve essere condivisa»[1]. Gli affari propri sono il primo interesse che fa guardare agli affari comuni come a un intruso. Del resto, il pensiero sociale della Chiesa insegna che il bene comune «non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base a un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, a un’esatta comprensione della dignità e dei diritti della persona» (Centesimus annus 47). In sostanza il bene comune non si identifica con un’opera concreta, ma con un modo di vivere in società che valorizza tutte le persone e ne facilita la partecipazione democratica.

Dunque, si tratta di ricostruire la responsabilità dell’elettore. Non basta la pubblicità che spieghi a ogni tornata elettorale come si vota e che inviti a recarsi alle urne. Anche le raccomandazioni degli avvisi del parroco a fine messa lasciano il tempo che trovano. Tra l’altro, la credibilità è pari a zero e somiglia al vuoto galattico se l’invito al voto non è accompagnato da un’abituale formazione ai temi sociali. Occorre allora partire dalle forme di partecipazione che ancora tengono perché fanno sentire le persone protagoniste. Laddove i principi di solidarietà e sussidiarietà si tengono per mano si rigenerano anche i legami tra le persone. Non accade in politica per le ragioni prima ricordate. Ma sulla scena sociale italiana negli ultimi anni la partecipazione ha assunto volti nuovi. È stata disegnata con la matita della sussidiarietà, che dà valore all’intraprendenza e al talento delle persone che vogliono mettersi in gioco. La vitalità del Terzo settore sta scrivendo pagine interessanti di impegno civile. Si aggiunga il variegato mondo dell’associazionismo e del volontariato, l’innovativa proposta dell’economia civile, l’attività intelligente di amministratori locali vicini alla gente, la forza dei giovani che si prendono cura dell’ambiente, l’impegno di agricoltori attenti alla domanda ecologica, la capacità di rinnovare le aree interne grazie alle cooperative di comunità, la costruzione di reti attraverso il progetto delle Comunità energetiche rinnovabili, le progettazioni urbanistiche ad opera di donne coraggiose, le buone pratiche lavorative al servizio delle categorie più fragili.

Nuovi modelli di partecipazione democratica avanzano e fanno ben sperare. La politica dovrebbe imparare. Almeno mettersi in ascolto. Anche il semplice cittadino non votante dovrebbe incalzare la politica perché dialoghi con questi mondi virtuosi. Non per assoggettarli a sé, ma per riconoscerli già come un bene comune presente nei territori.

Siamo in cammino verso la 50a Settimana Sociale dei cattolici in Italia: si terrà a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024. Può diventare un grande invito al cattolicesimo (e non solo!) per abitare il cambiamento. Il Paese ha bisogno di persone capaci di collaborare per rigenerare spazi di vita. Le periferie diventino laboratori di partecipazione politica e sociale. Solo così la presenza alle urne potrà risalire. Ripartire dal basso per riformare l’alto. Sogni di futuro.

[1] C. Giaccardi – M. Magatti, Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo, Il Mulino, Bologna 2024, 149.

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