La risposta
a cura di Giovanni Del Missier
È professore straordinario di Teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana di Roma e professore invitato presso le Pontificie Università Lateranense, Urbaniana e Gregoriana.
Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: Vite digitali. Comportamenti umani e sfide della rete, EDB, Bologna 2020; Per il bene possibile della coppia, EDB, Bologna 2019 (con R. Massaro e P. Contini); HIV/AIDS. Caso serio per la bioetica, Aracne editore, Roma 2008.
Sembra proprio che noi cattolici ci troviamo a nostro agio solo quando c’è un nemico da cui difendersi, e se il nemico non c’è, in qualche modo ce lo figuriamo a nostro uso e consumo. L’ultimo pericoloso avversario a profilarsi all’orizzonte sembra essere il gender, la cosiddetta “ideologia del gender”.
Non intendo banalizzare la questione, ma appare piuttosto sorprendente che una categoria ermeneutica impiegata in svariati campi di ricerca da più di 50 anni – il gender appunto – sia percepita oggi come una minaccia a tutto campo, al punto da indurre alcune frange ecclesiali ad arroccarsi in una difesa estrema “a catenaccio” piuttosto che corrispondere all’appello di papa Francesco per una chiesa in uscita. Uscita che in questo caso è di tipo culturale. Ma, si sa, il confronto con la novità che mette in questione i nostri paradigmi consolidati ci destabilizza e ci rende insicuri, poiché richiede una faticosa e umile conversione intellettuale. Essa impone di studiare il tema con serietà e profondità, senza fermarsi a una certa rappresentazione semplificata del gender di chi sostiene ideologicamente la totale decostruzione della sessualità e della famiglia, a cui si contrappone un’azione di contrasto che assume spesso toni sguaiati e ulteriori semplificazioni di stampo biologista.
Studiando il gender si può scoprire che esso nasce in ambito clinico negli anni ’50 del secolo scorso per cercare di gestire al meglio gli stati di ambiguità sessuale, introducendo una teoria non priva di limiti e problematicità che attraverso ulteriori scoperte scientifiche è stata fortemente rielaborata, per non dire superata nelle sue applicazioni concrete. Ma ciò ci ha fatto scoprire che l’identità sessuale non è un pacchetto già dato, bell’e pronto, ma che è anche un da farsi, affidato a una avventura non scontata che si chiama educazione identitaria, affettiva e relazionale, il cui esito non è né scontato, né automatico.
Successivamente la categoria venne assunta in ambito sociale e politico dal movimento femminista per criticare i modelli patriarcali e maschilisti che da secoli leggevano pretestuosamente il femminile come derivato, inferiore e servile per natura; rendendoci così consapevoli che le costruzioni culturali intorno alla differenza sessuale non sono mai neutre e possono incorporare forme di violenza tali che le trasformano in sistemi oppressivi e in strutture di peccato. Queste vanno contrastate e sostituite da contro-strutture di salvezza, improntate all’uguaglianza di diritti e di opportunità, che hanno portato le donne ad affermarsi in tutti i campi della vita professionale e pubblica: e questo (anche se rimane ancora molto da fare) è un bene per tutta l’umanità, soprattutto per noi maschi!
Una terza fase dei gender studies – divenuta una vera e propria galassia disciplinare che non può essere ridotta a qualche slogan e una sola autrice (p.es. J. Butler), superficialmente conosciuta per qualche citazione desunta dal web – approda alla riflessione sulla condizione dei gruppi marginali, in particolare il variopinto arcobaleno delle persone LGBT+, con l’intento di decostruire una società che emargina ed esclude chi si presenta diverso e alternativo rispetto agli stereotipi sociali, con l’obiettivo di plasmare mentalità, stili di vita e istituzioni tolleranti, accoglienti ed inclusivi. E su questo versante pare che ci sia ancora un lungo cammino da percorrere, perché proprio nessuno rimanga fuori, neanche dalla comunità ecclesiale che sa di dover accogliere tutti, per sanare le ferite dell’indifferenza e dell’odio (cf. Lc 10,33-34), ma che in molti casi non sa proprio come farlo concretamente…
Tutto oro in questo sfolgorante luccichio? Ovviamente no: come spesso capita il passaggio dalla rigorosa riflessione accademica alla protesta militante attiva porta con sé una tale “volgarizzazione” delle argomentazioni che facilmente scadono in una deriva ideologica, il cui maggior pericolo sembra essere quello dell’insignificanza e dell’omologazione della diversità. La riflessione che si ispira al gender sembra voler proporre un modello di inclusione che appare molto simile alla Babele biblica: un’unità appiattita sull’uniformità, che annulla le differenze perché le priva di significato. A questo modello è giusto opporre una proposta alternativa, che è un apporto tipico che la comunità cristiana può offrire alla società contemporanea: la comunione delle differenze, il modello della Pentecoste, il poliedro dell’inclusione opposto alla sfera dell’omologazione ideologica. Un progetto che pretende di far sentire ognuno a casa propria, valorizzando l’unicità di ciascuno per comporla in una sinfonia armonica con tutti gli altri.
E per tentare di realizzare tutto questo occorre da un lato verbalizzare confutazioni comprensibili e articolate (rendere ragione in modo critico della propria proposta), dall’altro presentare modelli concreti di ascolto, accompagnamento e inclusione che realizzino almeno parzialmente questa proposta alternativa (testimonianza profetica). Il contesto del dibattito pubblico, del confronto politico e degli interventi di educazione nella scuola dovrebbero essere i contesti privilegiati di questo dialogo costruttivo, condotto secondo le opportunità offerte dalla normativa e secondo le leggi dello stato democratico, senza privilegi di sorta. Ovvero contribuendo così a dar seguito a un processo già avviato, senza pretendere di occupare spazi dominanti (cf. Evangelii gaudium, n. 223).
Al netto di queste considerazioni, resta un compito propositivo non indifferente, la sfida più genuina e significativa del gender: pensare la differenza sessuale, il suo significato e la sua rilevanza, per comunicarne la ricchezza in modo convincente al mondo di oggi che si attende indicazioni proprio in questo campo. La differenza, infatti, è inscritta nella carne e risulta inaggirabile nella ricerca di senso del sé, ma si presenta sempre come un significante aperto e non come un significato già preconfezionato, ovvero richiede di essere investita di un senso propriamente umano, personale e relazionale, da interpretare singolarmente e comunitariamente. Tale sforzo ermeneutico coincide con la ricerca non scontata della progettualità creaturale che è inscritta nella nostra natura umana che, in ogni tempo, deve essere fatta oggetto di una rilettura culturale per essere significativa per la sua epoca. Compito arduo perché impone di leggere dentro la natura per scorgervi una promessa di bene che poi deve essere attuato vitalmente da uomini e donne concreti e irripetibili, non da astratti maschili e/o femminili. Un compito arduo, ma affascinante di pensare la differenza.
E a chi non riesce proprio ad uscire dal circolo vizioso dello scontro con un nemico, vale la pena ricordare quanto insegna il concilio Vaticano II: «La Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano» (Gaudium et spes, n. 44). Figuriamoci quanto di buono può venire, allora, da una categoria ermeneutica che si presenta tanto provocatoria e generatrice di novità come è, appunto, il gender!
Comments (1)
Valerio Gioiasays:
Dicembre 19, 2022 at 2:05 pmL’articolo del Prof. Giovanni Del Missier mette in luce alcuni aspetti critici sul nostro modo di pensare la sessualità umana, e con ciò, l’identità personale dell’essere umano. Un aspetto molto importante per il modo di comprendere la sessualità umana è, infatti, la differenza fra significato e significante.
Questo binomio, in realtà, lo si potrebbe estendere a tutto l’esperibile umano, poiché mette in luce una caratteristica ben determinata: ogni cosa non è compresa in sé dall’essere umano, ma è compresa a partire da quel significato che un determinato pensiero o una determinata cultura assegna alla cosa stessa. Potremmo fare un esempio: il cibo può essere visto soltanto come nutrimento, come risposta a un bisogno – la fame – ma potrebbe essere pensato – così come avviene per l’essere umano – anche come condivisione, companatico, comunione. Non solo. Ognuno di noi, per rispondere al bisogno della fame, non si serve semplicemente del cibo, ma lo fa secondo dei gusti, delle misure, secondo una determinato modo di prepararlo, di cuocerlo, di servirlo e di mangiarlo. Tutto ciò fa assumere al cibo assunto un significato diverso. È tale significato a riempire di umanità il semplice gesto del mangiare, o un semplice cibo – che in questo caso è il significante.
Questo esempio, seppur forse banale, può far comprendere come ogni dimensione dell’essere umano sia irradiata di un significato che non sempre è già assegnato di per sé a tale dimensione. Lo stesso dicasi per la sessualità. Non vogliamo mettere in dubbio l’esistenza di un dualismo sessuale, che è certamente qualcosa da valorizzare sempre di più, ma comprendere che esso si pone, nell’esperienza umana, come dato iniziale iscritto nel proprio corpo. Ed essendo, il corpo sessuato, non un semplice oggetto fisso, statico, ma corpo vissuto, si rende necessario comprendere che tale corpo assume significato proprio nel lungo e complicato percorso di vita.
È un dato ormai assodato dalle scienze umane che l’identità sessuale, lungi dall’essere un dato statico, indiscusso, è un cammino faticoso, si costruisce di giorno in giorno a seconda del proprio vissuto. Lo stesso essere uomo e donna non sono vissuti da tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi allo stesso identico modo, ma, in maniera personale, sono il frutto di un’esperienza di vita che porta ad esprimersi in maniera sempre unica, come unico è ogni essere umano. Non solo. La stessa identità sessuale di ogni uomo e donna non è data solo ed esclusivamente dal dato più evidente, cioè dal sesso fisico, ma è dato anche dall’identità di genere, dall’orientamento sessuale (le cui basi vengono poste nei primi delicatissimi anni di vita), e dal ruolo di genere, cioè da un insieme di modi che ogni società, ogni cultura, ogni gruppo di persone in relazione, in una determinata epoca storica e contesto culturale, associa all’esprimersi e al vivere come uomo o donna.
Tutto ciò ci fa comprendere come identità sessuale e sesso fisico o biologico non siano la stessa cosa, e che quest’ultimo si proponga sia come dato che come significante. La questione tocca uno dei binomi più scottanti del pensiero filosofico e teologico, vale a dire il rapporto fra natura e cultura. Seppur semplicemente pensassimo, in questo caso, che natura vuol dire sesso fisico e cultura vuol dire genere, non potremmo assolutamente pensare di abbatterne uno dei due per proclamare come unica verità l’altro. Le due cose non possono essere scisse tra loro, bensì si trovano tra loro in un rapporto di necessaria circolarità. Ciò significa che non possiamo abbattere la cultura per esaltare semplicemente il dato naturale (è ormai un dato assodato che questo procedimento potrebbe portare, in alcuni casi, nella cosiddetta fallacia naturalistica), poiché ogni cosa che esiste in natura è data a noi già culturizzata, cioè con dei significati, i quali non sempre possono coincidere con il significante, ma che, allo stesso tempo, affidano ad esso un valore propriamente umano.